Caravaggio. L’ultimo tempo 1606 – 1610.

12 novembre 2004

Napoli, Museo di Capodimonte

Caravaggio torna a Napoli. Impaginato con naturalezza nelle sale di Capodimonte, il racconto degli ultimi quattro straordinari, intensissimi anni di  vita e di lavoro del Merisi. Scanditi da un’impareggiabile progressione stilistica ed emotiva…

Era scontato che fosse straordinaria? Ed è banale dire che lo è? Sarà, ma difficilmente una ventina di capolavori mente. Senza pompa di velluti né are votive -e con una rivoluzione tutto sommato contenuta- nelle sale di Capodimonte s’è apparecchiato il soggiorno di Caravaggio: appeso alle pareti del museo di tutti i giorni, a metà di una linea evolutiva che ribadisce il suo solitario essere spartiacque. Titolo –va detto-conseguito ad un prezzo tutt’altro che modico, saporito d’offese e dinieghi, oppresso dal lezzo del romanzo popolare. Ci si è concesso, perfino, il lusso di (ri)proporre una manciata di nuove attribuzioni che, da sole, meriterebbero una trattazione a parte. Insomma, quantità e qualità a soddisfazione (questo è un sogno collettivo che dura da oltre vent’anni), tanto da lenire perfino il dispiacere per i grandi assenti, come la Madonna del Rosario, rimasta a Vienna, e la Natività di Palermo, ingoiata dal crimine nel 1969.

Si parte alla grande, coi mesi trascorsi tra il Lazio rurale e il ventre molle di Partenope, che a partire dal maggio 1606 ricoverano il pittore omicida, bandito e fuggiasco. E, tra le Sette opere di misericordia che squarciano la sordida notte dei vicoli, stupisce vedere come la pennellata si faccia netta, tagliente, imperiosa, spesso rapida e sbrigativa, come se fosse passato un secolo dal cesellato Emmaus di Londra, con quel Cristo dai capelli inanellati e la canestra ricolma sulla mensa imbandita, così simile a quella del Borromeo. Tutt’altra storia rispetto alla versione meneghina, dove il Figlio di Dio china lo sguardo su un desco più parco: due foglie di verdura, qualche pagnotta, la brocca di terraglia (pasto d’artista al tempo della fame?). Complice una regia poco invadente e repressiva, pochi centimetri separano lo spettatore dalla stesura: a sorpresa, gli impasti di luce del maestro si svelano guazzi, sporchi, chiazzati di livido, come nelle mezzelune del costato stecchito del Sant’Andrea venuto dall’America, salvo tornare trionfare nella pelle d’avorio e nei panni di neve dell’angelo annunciante di Nancy, o nel torso del Cristo alla colonna, splendido padrone di casa.

Cupa la rappresentanza maltese giunta dalle sponde dell’Arno, coi neri addensati di Amorini dormienti e cavalieri con croci a otto punte, mentre il trittico siculo, qui riunito per la prima volta, denuncia la precarietà dei pigmenti isolani: Santa Lucia sepolta nella sciupata rarefazione del bronzo; Lazzaro restituito alla vita da un frullar di setole; il triangolo dell’Adorazione dei pastori così raccolto da ridurre all’indispensabile perfino le festuche di paglia. Il dramma precipita dietro l’angolo, in una stanza delle torture disseminata di decollazioni, tradimenti e martiri, dove unica oasi di pace è il San Giovannino Borghese, con quel faccino bruno da scugnizzo e scintille maliziose nelle pupille d’inchiostro. Una Salomé un po’ appassita guarda dall’altra parte, come se il trofeo sul vassoio non le appartenesse, il pavido Pietro mente e il carnefice David compatisce il dolore che gocciola dalla sua vittima. L’epilogo: il pictor praestantissimus innesta il proprio corpo su quello di Orsola trafitta, che si spezza come un giglio reciso dal barbaro dardo. Non un gemito dalle sue labbra, mentre l’armato lucente s’appresta a sorreggerla, inutile la mano (scoperta dal recente restauro) che irrompe a fermare il martirio. Nello spasmo dell’abbraccio finale, Caravaggio le s’incolla, inarcato, proteso a ricevere la catarsi della medesima in-giustizia. Dal seno di verginesbocciano i petali un anemone vermiglio. È colore, sangue di entrambi.

 

anita pepe

mostra visitata il 23 ottobre 2004

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