Da Umberto Di Marino la prima personale partenopea dell’artista
Dopo le pirotecniche invenzioni di Mark Hosking, Umberto Di Marino ospita nella sua galleria di via Alabardieri 1 un progetto decisamente più severo ed asciutto, che cerca di coniugare valenza estetica e complessità contenutistica, «appagando sia la parte formale che quella concettuale». Parole, queste, dello stesso Luca Francesconi, il quale prosegue in questa prima personale napoletana – visibile fino al 10 aprile – una ricerca che, pur sorretta da un’articolata lucidità speculativa, si concretizza in un percorso decisamente essenziale, silenzioso e (alla lettera) spoglio. È il caso dell’opera che dà il titolo alla mostra: un “ramo nudo”, o meglio denudato, completamente decorticato, ridotto a schietto e pallido scheletro dal quale pendono filamenti di chewing-gum rosa. «L’obiettivo – spiega il giovane artista mantovano – era quella di ricreare un’idea di “alberità” in modo incongruente, anche se in fin dei conti la gomma, adoperata per ricostruirne la “trama”, non è un prodotto del tutto sintetico». Al di là d’una semplicistica contrapposizione tra naturale e artificiale, l’asserzione conferma il presupposto concettuale di lavori aperti a molteplici livelli di analisi, dall’evidenza alla metafora. Come “Sciuscià”, proposta più di tutte site-specific: un grosso blocco di quarzo, «già di per sé capolavoro e prodigio alchimistico», spalmato di lucido da scarpe, rimando al ricco mondo minerale partenopeo e citazione del cinema neorealista, che tradusse in cruda poesia la miseria degli scugnizzi costretti per pochi spiccioli a lustrare le calzature dei “liberatori”; una materia usata, inoltre, per rappresentare il suo stesso capovolgimento, poiché una superficie che generalmente filtra la luce qui, invece, diviene riflettente. La tendenza all’estrema concentrazione espressiva si fa più netta nel ramo di carrubo, per il quale la possibilità di un’interpretazione trascendente, religiosa, si rivela solo la più immediata (ma non per questo la più superficiale), visto che le spine acuminate della pianta – scovata dietro la centralissima Porta Garibaldi a Milano, dove fungeva da recinzione – in realtà sono i frutti in boccio. Collante dell’intero progetto è il limitato intervento sugli elementi prescelti, nell’ambito di un’indagine né casuale né sistematica, scevra da un intento di catalogazione botanica e priva di un preciso “territorio di caccia”: per una fotografia o un disegno – come quelli dedicati agli innesti spontanei, anch’essi esposti – Francesconi può trarre spunto da qualsiasi luogo, compresa la città, facendo così giustizia del preconcetto che identifica lo spazio urbano col deserto vegetale per eccellenza. E di prese di posizione il creativo lombardo se ne concede altre, quali la confutazione del fallito determinismo evoluzionista, o il ripudio del relativismo oggi imperante, rintracciando proprio nella “physis” le “bussole” per l’orientamento della specie umana. Ma, se si contestazione si tratta, essa è aliena da velleità rivoluzionarie e, tanto meno, monitrici, nei confronti di una Natura che, una volta tanto, non è matrigna né vittima.
(Roma, 12 gennaio 2006)