Troppa grazia. Dalla camera oscura verso la luce, William Kentridge manda a fuoco il San Carlo e gli fa vedere le stelle. Ma niente paura: tutto si risolve grazie ad un Flauto Magico. In un allestimento che è davvero una favola…
Un lampo all’inizio, un diluvio alla fine. Di applausi. Così il progetto di William Kentridge (Johannesburg, 1955) per il Flauto Magico, che chiude in bellezza il 250° anniversario della nascita di Mozart al Teatro San Carlo di Napoli, si conferma l’evento della stagione, ancor più della trilogia dapontiana messa in scena da Mario Martone in primavera con enorme successo. Nei panni di regista e scenografo, il maestro sudafricano congegna un impianto potente ma non invadente, nel quale sovrana è, come dev’essere, la musica. Un allestimento di una grazia e di un’eleganza rare, soprattutto nel caso di un’opera sovente appesantita da stucchevoli allegorie massoniche ed inutili effetti speciali, rispetto ad un messaggio che, ad un primo e superficiale livello, è elementare. Con didascalica semplicità, il libretto di Emanuel Schikaneder narra infatti dell’eterna lotta tra Bene e Male (e indovinate chi vincerà….) e dell’emancipazione dalle Tenebre alla Luce che si realizza in forma sublimata nel rapporto amoroso. Resta perciò limitato il corredo simbolico (la pietra, la scala) di uno spettacolo mai sopra le righe, con ottimi cantanti a proprio agio nella camera oscura concepita dall’artista come perno della propria lettura. La macchina fotografica, dunque, leit-motiv oggettuale – attributo delle Tre Dame, che al loro primo apparire fanno balenare il flash di un vecchio apparecchio sul treppiedi– e fil rouge concettuale dell’intero singspiel, che nell’apoteosi conclusiva si chiude sotto il dominio di un occhio gigantesco, mentre il diaframma si restringe sulla coppia eletta, involata verso l’abbacinante splendore dopo il superamento delle prove iniziatiche. Un finale folgorante, degno coronamento della costante danza di luce che Kentridge dirige abilmente fin dall’ouverture, disegnando ovunque grazie ad una batteria di proiettori (che, tra gli altri, hanno il merito di aver “sfrattato” le autorità dal palco reale) scie, arabeschi, filamenti, raggi, fiamme, scrosci d’acqua, stelle, colonne stilizzate, silhouette ed ombre cinesi.
Stupefacente l’impatto di questa visione fisica e fiabesca, astronomica (frequenti i valzer delle orbite) ed ottica (reiterati prismi, cannocchiali e camere oscure), meravigliosa nel senso pienamente barocco del termine, concretizzato sui velari improntati ad un fastoso rovinismo piranesiano. Tecnica e tecnologia fusi in un’ambientazione composita, che dall’Ottocento dei primi dagherrotipi –ispiratore dei bei costumi “vittoriani” ideati da Greta Goiris– retrocede fino ad un Egitto immaginario, disseminato di palmizi e obelischi, attraverso un Settecento di leziose voliere e carillon, senza che il regista rinunci ad altre facce della sua Africa, come il rinoceronte ballerino, poi giustiziato nel filmino d’antan di un safari. Scorrazzando nella partitura del divino Amadeus, il pirotecnico William si diverte soprattutto quand’è alle prese con Papageno l’uccellatore, grazie al quale il suo cuore d’animatore mette le ali con risultati a dir poco deliziosi (è il caso dei siparietti con Monostatos
o dei duetti con Papagena). E ancora caleidoscopi, montagne che si aprono come ventagli. Tutto si muove, nella scatola magica dell’opera, tranne i cantanti.
Perché a loro basta perlopiù il tapis roulant, sul quale entrano ed escono da una dimensione esoterica e avventurosa, comica e patetica, che li accerchia, li avvolge, li sovrasta e li imprigiona con zoomate elastiche e spostamenti dell’obiettivo, nel dinamismo a parti invertite di questo giocattolo incantato. L’unica cosa alla rovescia nel regno del saggio Sarastro, in cui tutto va per il verso giusto e il lieto fine è noto. Anche per Kentridge.
anita pepe