Sorridere “scamazzando” Pulcinella

14 dicembre 2006

L’ironia dell’artista napoletana Roxy in the box alla galleria di Franco Riccardo

Roxy In The Box_ Martiri_ 2006_ acrilico su tela_150x150cm

«Io a Pullecenella ’o scamazzasse!». L’espressione è indubbiamente colorita, ma fra quelli che la conoscono nessuno se ne stupisce. E quelli che non la conoscono ancora potranno rimediare, da stasera fino alla fine di gennaio 2007, grazie alla galleria Franco Riccardo Arti Visive, in via Santa Teresa al Museo 8, dove “Roxy in the box” ha finalmente deciso di “rompere la scatola” per esporsi nella sua città. Un’attesa e anomala prima volta, per una che (testimoni il curriculum e l’occhio clinico di numerosi curatori) non è certo una debuttante, ma, a differenza di altri, partiti da Partenope spesso senza riuscire ad allontanarsene, ha preferito fare il giro largo, quasi a prendere le distanze da certi luoghi. Comuni. Soprattutto per lei, artista “pop-olare” che, pur affondando lo sguardo e il pennello nei Quartieri sotto casa, “è” e non “fa” la napoletana, esecrando il malcostume di trasformare i vicoli in terreno di coltura per i batteri del bozzettismo e i virus dell’oleografia, compresa quella negativa che oggi fa tanto engagé.
Lo confermano i dipinti in mostra, sgargiante e scattante carrellata di “Pulp…azioni” di grande formato che, pur spuntate in un humus fertile e fortemente caratterizzato, si prestano agevolmente al trasferimento in altri contesti, parimenti vessati dal dilagare di una sottocultura della violenza e della sopraffazione. Un mondo truculento e volgare, in cui adolescenti dalle sembianze extraterrestri, per niente ingentiliti dal prezioso parato retrostante, ostentano gli attributi con strafottente arroganza, e dove una spaventosa minaccia di annientamento come “T’aggia scassà ‘o sanghe” diventa pretesto per snocciolare il rosario-tormentone di un accattivante videoclip, protagonista un ambiguo e impomatato “marsigliese” in coppola e sciarpina griffata, che pare reduce più da una passerella Dolce & Gabbana che dal 41 bis. Ancora una volta, il lavoro tritura provocatoriamente gli stereotipi sacri e profani del Paese d’o sole, giallo come la tutina incollata addosso alla storica venditrice di banane della Pignasecca, parodistica e verace risposta alla sposa guerriera del cultmovie di Tarantino, cariatide che chissà quante ne ha viste, ma che probabilmente non ha mai gustato quell’“Aperitivo in centro” pubblicizzato dal raffin/effer-ato manifesto su cui campeggia la scritta “Martiri” (dove andrà l’accento?), residuo di una lunga fase di manipolazione delle icone consumistiche.
Le tinte vivaci, l’ironia dei titoli, il carattere franco e brillante delle opere e dell’autrice non traggano in inganno. La realtà è terribilmente amara e sconfortante. Lo denunciano l’insofferenza, mimata col linguaggio dei sordomuti in una sequenza di nove disegni, e il disincanto del dittico autobiografico “Cento colpi di sega”, malinconica parafrasi del rituale femminile di spazzolarsi le chiome prima di andare a dormire. Un momento di riflessione, uno spazio di libertà, forse l’unico della giornata, in cui, però, non sempre affiorano pensieri lieti. A mo’ di capelli recisi, a cadere qui sono le illusioni, che si squagliano come il ghiacciolo in pugno al ragazzo, che ci ricorda quanto sia “Duro da tener duro”.

(Roma, 14 dicembre 2006)

         

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