Napoli, Galleria Alfonso Artiaco
Guardare ma non toccare. E attraversate pure col rosa, in mezzo alla nebbia. Dopo il prologo collettivo del Pan, Anna Veronica Janssens torna da sola a Napoli, dissolvendosi brillantemente in un “quasi nulla”…
Può l’impalpabile diventare tangibile? Può il vuoto mettersi in movimento? Per Ann Veronica Janssens (Folkestone, 1956, vive in Belgio) la risposta è decisamente affermativa. E la dimostrazione concreta, seppur immateriale, è nella sua personale da Alfonso Artiaco, che in Dedica, collettiva organizzata al Pan per celebrare i suoi vent’anni di attività, ha fatto da apripista al solo-show dell’artista, scelta nel 1999 per rappresentare il Belgio alla Biennale di Venezia, la cui riflessione sullo spazio, evoluzione “naturale” degli studi di architettura, prende corpo grazie a intersezioni e mescolanze tra elementi eterei e volatili: variopinti fasci luminosi, vapore diffuso e rarefatto. E i trucchi del mestiere, ovvero i mezzi adoperati per creare questo –come lei stessa lo definisce“quasi nulla”, restano programmaticamente visibili. Perché il fine non è l’illusione ottica, ma la perdita di punti di riferimento, l’emancipazione dalla “tirannia degli oggetti”. Una fuga dalla sostanza, ma non dalla forma, in cerca di definizioni volumetriche e di geometrie, con l’obiettivo teoricamente impossibile di evocare la tridimensionalità dal grado zero dell’iconicità, confidando nella percezione dello spettatore, facendo leva sulla sua esperienza o, piuttosto, su un universale innatismo. È una scultura psicotropa, allora, la stella rosa shocking plasmata da spot e bruma artificiale, quasi un’elastica tensostruttura che aspetta solo d’essere toccata, salvo svanire come un miraggio, in un’atmosfera ipnotica e fervente da calidarium tecnologico, in cui spazio e luce si dissolvono l’uno nell’altro al ralenti, simile ad un avvolgente stadio di languida allucinazione.
Un’astrazione poetica che, abolendo i rimandi simbolici, lascia allo spettro cromatico il potere emotivo: netto, tagliente, incisivo il relazionarsi incrociato delle due proiezioni dicroiche dai toni freddi e caldi. Meno convincente, invece, Tropical Paradise, pezzo di sole in forma di lamiera ondulata, dipinta d’oro e sospesa nel corridoio d’ingresso, che non “scalda” anche in ragione di una collocazione che le sottrae luce e (per chi cammina a testa bassa) attenzione. Elementi fondamentali nell’alveo di una soggettività manipolata ad arte, di una sensorialità sfidata a superare il proprio limite e ad aprirsi ad una dimensione in cui questo “presque rien” diventa prensile. Filosofia dell’effimero e del transitorio, come effimere e transitorie sono le reazioni del fruitore. Che l’inseguire quel quid precario e sfuggente punti al nocciolo stesso dell’arte, mistero destinato a rimanere eternamente inafferrabile? Un momento c’è, subito dopo scompare. Meglio: c’è fin quando è sotto i riflettori. Basta spegnere le luci della ribalta e svanisce.
anita pepe
mostra visitata il 9 febbraio 2007