Napoli, Castel dell’Ovo
La forma dello spirito. La sfida dell’invisibile. Le pulsioni premeditate e i bollenti spiriti di Giacomo
Montanaro, proiettato tra il tormento e l’estasi verso i suoi fantasmi elettrici…
La febbre, l’attacco. È un accesso di sana follia l’urgenza del gesto di Giacomo Montanaro (Torre del Greco, 1971): ogni quadro una performance, un atto liberatorio, ma soprattutto una corsa contro il tempo e la materia. Disseminati nella prima personale napoletana una dozzina di frutti maturati nell’ultimo anno, velocemente ma non in fretta, in seguito ad un progetto mentale che ogni volta si concretizza con straordinaria rapidità in una pittura emotiva. Purtroppo, a smorzarne l’impatto s’intromette la location: prestigiosa sì ma soverchiante, causa di una certa dispersione visiva e psicologica, riparata dall’efficacia dei due lightbox posizionati nei punti più oscuri, quasi emblemi del germe oscuro di un’esecuzione che estrae chimicamente il balenio della figura dalle tenebre dell’ignoto. Rispetto al passato, più ordinata e ponderata, e non priva di una certa propensione sequenziale, è la composizione delle opere, alcune delle quali echeggiano il pathos pregnante di citazioni illustri (La cacciata di Adamo ed Eva di Masaccio), altre, come rilievi di sarcofagi, sembrano pronte al salto verso la tridimensionalità, svelando così la retrostante mano dello scultore. Scultore per formazione, Montanaro, nonostantei trascorsi accademici l’abbiano reso “pereziano nell’umore” più che nella tecnica, visto l’ininterrotto anelito verso la pittura, o meglio, l’extrapittura, inappagato finché l’artista, dopo il lucido da scarpe, il mercurio, le muffe, ha trovato la “sua” tecnica: acidi su carta fotografica. Scultore per la centralità conferita all’homo mensura dello spazio fisico e creativo che, in qualche caso, suggerisce la decostruzione di Antony Gormley: una radicalità tematica che non ammette il “disturbo” di altri elementi, astraendo da qualsiasi contesto queste fondenti anatomie umane. Elemento nuovo in questa esposizione la varietà cromatica, sfondi compresi, ottenuta non solo perfezionando e calibrando empiricamente i tempi di reazione dei “colori”, ma anche accogliendo gli acrilici, giunti ad addolcire il morso corrosivo degli acidi. Frasi staccate scritte di getto in uno stato di convulso isolamento, matasse ingarbugliate e allacciate che stabiliscono una relazione intima tra queste brucianti radiografie di ectoplasmi, larve innervate di fili incandescenti. Emanazione d’una luce interna e interiore, riflesso d’un furore che, sacro o no, dichiara la radice spirituale di questo percorso: traduzione di un’esigenza che, al di là dei rischi di stilizzazione e di standardizzazione, restituisce l’innocente sincerità di una passione mozzafiato.
anita pepe
mostra visitata il 6 aprile 2007