Il pensiero positivo di Paladino, Biasiucci e dei Fuksas
Napolincroce. È fin troppo esplicito il titolo della nuova mostra del Madre. Non un grido di dolore, ma un «gesto di ottimismo» per una città straziata, umiliata, ferita a morte. E tuttavia piena di quei tenaci eroi del quotidiano che, nonostante tutto, giorno dopo giorno continuano a costruire la speranza sulle macerie di una distruzione continua.
Ne è convinto Massimiliano Fuksas, l’architetto romano di origine lituana che, insieme a sua moglie Doriana, allo scultore sannita Mimmo Paladino e al fotografo casertano Antonio Biasiucci firma la nuova installazione del museo di via Settembrini, che proprio oggi ”festeggerà” il suo terzo anno di vita con una mattinata in cui si susseguiranno gli interventi del direttore Eduardo Cicelyn, dell’amministratore delegato di Scabec Giovanna Barni, di Gabriella Ambrosio di AM Newton 21 (l’agenzia che ha curato l’advertising, spesso irriverente e provocatorio, del museo), di Arturo Fittipaldi, docente di Museografia presso il dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Napoli Federico II, dal quale provengono anche Francesco Bifulco e Mariantonietta Picone, che presenteranno il progetto di ricerca sul rapporto tra il museo d’arte contemporanea Donnaregina e la città.
A mettere la ciliegina sulla torta di compleanno, l’assessore regionale al Turismo e ai Beni Culturali Claudio Velardi.
È prevista inoltre la proiezione “Un progetto felice”, video-intervista ad Alvaro Siza, l’archistar portoghese, cui è stato affidato il restauro dell’edificio, che nel giugno del 2005 aprì le porte con un opening memorabile per ressa di pubblico.
Una “partecipazione” che, nel corso del tempo, ha visto affluire quasi 200.000 visitatori nelle sale della Fondazione che, inaugurate in modo scaglionato, hanno trovato un’“appendice” espositiva nell’adiacente chiesa di Donnaregina vecchia e nella piccola Project Room affidata a Gigiotto Del Vecchio e Stefania Palumbo (organizzatori, tra l’altro, del recente workshop per giovani artisti, i cui “saggi di fine corso” saranno in esposizione a partire da giovedì prossimo).
Una strategia, quella del “Beaubourg” sorto nel cuore del centro storico partenopeo (e messosi “in rete” con il Pio Monte della Misericordia e il Museo del Tesoro di San Gennaro grazie all’itinerario con biglietto integrato “Art4you”), chiaramente all’insegna della diversificazione, necessaria a raggiungere un ampio range di utenti: non solo mostre, dunque (storiche o orientate verso i giovani), ma anche performance teatrali, concerti, serate disco, aperitivi, cocktail, cene. Pronti ad riempire un’estate che già si profila bollente, con una una grande rassegna di musica, teatro, cinema e danza tra luglio e settembre.
Un luogo polifunzionale, quindi, in un punto nevralgico di una città difficile e in perenne emergenza. Una Napoli in cui, mutatis mutandis, ieri come oggi risuona la stessa invocazione che, all’indomani del terremoto del 1980, Andy Warhol consacrò ad icona: “Fate presto”. Ed è alla responsabilità civile che ha fatto appello Eduardo Cicelyn inaugurando ieri ”Napolincroce”, sia in qualità di direttore del Madre che di curatore di una mostra ”corale”, ”ripensata” in progress per il continuo mutare degli eventi, ma sostanzialmente immutata rispetto all’idea originaria. Che è quella di essere presenti, più che «sulla cronaca, nel dibattito culturale apertosi in questi mesi» in una realtà sempre più attonita e insofferente. Un territorio di incredibile bellezza, perennemente sull’orlo della catastrofe, della dissoluzione (e talvolta, pare, pago di esserci).
Nessuna prospettiva apocalittica, però, perché , «alla fine», ha affermato Cicelyn, «si tratta sempre di una messinscena». Un allestimento interamente site specific, costituito – ha precisato Paladino – «non di opere da ammirare, ma qualcosa in cui si entra con diversi gradi di coinvolgimento». Sulla stessa lunghezza d’onda, l’articolato, e un tantino retorico e tribunzio, commento di Fuksas: «Trasformare i disastri in qualcosa di positivo è una cosa tipicamente napoletana, anzi italiana. Ci hanno provato tutti a risolvere i problemi del mondo, ma non ci sono riusciti. Alla fine ci proviamo noi, quelli del mondo della creazione».
Eppure, al di là delle ostentazioni di ”pensiero positivo” e di questa ardente ”chiamata alle armi”, al fiducioso elogio di questa presa di coscienza individuale a fronte di uno Stato percepito come entità ”aliena”, non è certo il migliore dei mondi possibile quello rappresentato e prospettato nella chiesa di Donnaregina vecchia, dove fino al 29 settembre resterà questo atto unico e polifonico.
Sul quale prevale una voce – quella di Toni Servillo, acclamatissimo ”divo” dell’ultimo festival di Cannes e, pertanto, assente giustificato all’opening – che snocciola dati relativi a faide di camorra, ecoballe non smaltite e cataclismi vari… il tutto intervallato dal rumore di una goccia (in un mare magnum di disgrazie, probabilmente).
Un percorso che, nel complesso, ha uno scarso impatto visivo, sia per la dispersione generata dalla slanciata imponenza dell’architettura gotica, sia per la ”debolezza” degli stendardi che piovono tra le navate, dove nella stilizzata croce a T s’incontrano Biasiucci e Paladino, il quale, a dodici mesi esatti di distanza dai ”Sette scudi” installati in cortile e dal cavallo sul tetto, torna al Madre per ribadire che il suo è uno stile fondato sull’idea di recupero (vedi l’Apecar nel chiostrino antistante la chiesa) e soprattutto sull’idea di segno.
Un ”segno”, quello del poliedrico artista di Paduli, che si concretizza inoltre nella scultura dell’uomo allungato e messo ”al tappeto”.
Più suggestivo, invece, lo «scambio di pani» tra Biasiucci e lo stesso Paladino nella piccola cappella Loffredo: merito in gran parte ascrivibile al fotografo di Dragoni, che impone all’occhio dello spettatore il tempo lento dell’abitudine all’oscurità prima di cominciare a ”vedere” i suoi scatti.
Circonda l’altare un’oscura serie di ventotto immagini che, come negativi fotografici, si lasciano scoprire lentamente, come apparizioni: ex voto – situati per la maggior parte nella cappella di San Giuseppe Moscati nella chiesa del Gesù Nuovo – per lo «scampato pericolo» (ma la ”nuttata” sarà davvero passata?), come li ha definiti Doriana Fuksas. Che, insieme a Massimiliano, s’incarica della parte più ”sostanziosa” e pesante, nell’abside: tronchi nudi, scortecciati, trafitti da una miriade di lunghissimi chiodi, ”legati” da robuste corde. In fondo, come un calco pompeiano, una figura rannicchiata di Paladino. Un altro che cercava di scampare al disastro e non c’è riuscito. O un ”dormiente”, sprofondato nel sonno della ragione. Tanto, alla fine, si tratta sempre di una messinscena.
(Roma, 13 giugno 2008)