Lucio Perone: il fare appartato dell’arte

15 giugno 2008

Il trentaseienne sannita alla galleria di Mimmo Scognamiglio con le sue ”Visioni”

Lucio Perone è uno che fa poche mostre. E non per strategia, ma perché ama fare tutto da solo, fiero delle capacità tecniche con cui realizza installazioni «autonome», adattabili a diversi ambienti. A un anno di distanza, il 36enne sannita raccoglie da Mimmo Scognamiglio il testimone da suo fratello Peppe, anche lui arista. Linguaggi diversi, e una caratteristica comune: la cultura, e il culto, del lavoro manuale. Anche perché Lucio sa cosa significhi passare dalla teoria alla pratica: prima dell’Accademia, infatti, disegnava e dipingeva, attività canonicamente “mentali”. Poi ha incontrato la scultura, esercizio eminentemente  fisico. E, «ancora in guerra con la linea», ricorda come il passaggio dal foglio alle tre dimensioni possa stravolgere un’idea, contrapponendo all’immaginazione del progetto la realtà severa ed esigente della forma. Fatta di materia, luce, superfici. Stondate e ruvide, plasmate in un genuino repertorio di “Visioni” quotidiane. Lo studio in campagna, la vita a Rotondi, per il momento, sono sufficienti,  perché provincia non vuol dire necessariamente isolamento, ma un livello maggiore di “autotutela” contro l’emulazione e l’omologazione scatenate dal surplus visivo della città. Ed è a questo starsene appartato che Perone attribuisce la riconoscibilità di uno stile piacevole, pulito, luminoso, ludico. Che ruota con gusto intorno all’illogico accostamento di elementi discordanti e, ingigantendo le dimensioni, da paradossale diventa surreale. Un discorso in punta di matita – oggetto prediletto per la sua “trasversalità” (serve a tutti, dal medico all’ingegnere) -, semplice e chiaro: «Ho una presunzione – dice Perone -: penso che il mio lavoro riesca a parlare a tantissima gente». Una vena popolare e in evoluzione, come suggerisce la trasformazione dell’«animaletto buffo» del passato in un omino nero «strano e folle»,che cerca di livellare un planisfero rosso sangue alla Boetti, o mette sotto torchio un libro. Dalla parete emergono il muso affusolato, le zampe cilindriche o la placida groppa di un cavallo: un invito a proiettarsi in un mondo parallelo, separato dal nostro soltanto da un velo d’acqua orizzontale. Un’entrata – o un’uscita? – su un universo ricchissimo ma inaccessibile. Dove l’assurdo è più vero del vero.

(Roma, 15 giugno 2008)

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