Christian Flamm

27 giugno 2008

Napoli, Galleria Fonti

Testo, pretesto, contesto: i tre pilastri di una personale da fiaba. Il mare che bagna Napoli scioglie i colori in una specie di alchimia sentimentale. Che parte da un testo secentesco per arrivare a un teatro del mondo senza storia…

Quando la cornice è solida, il quadro regge e fa pure bella figura. Lo sapevano i grandi e piccoli novellatori d’ogni epoca e latitudine e lo sapeva pure il napoletano Gian Alesio Abbattutis, alias Giambattista Basile, campione del barocco cui la Nera Signora impedì di veder pubblicato, tra il 1634 e il 1635, il suo Cunto de li cunti: “Il racconto dei racconti”, titolo che sa un po’ di smargiassata secentesca e sembrerebbe -ma non è- decisamente enfatico per una raccolta di fiabe in dialetto. Un “trattenimento de’ piccerille” che all’incomprensibilità dell’antico vernacolo aggiunge le acrobazie scrittorie tipiche del secolo, ma che è, in ogni caso, un (saccheggiatissimo) capolavoro, la cui struttura policentrica fa da perno e cornice site specific alla seconda personale italiana di Christian Flamm (Stuttgart, 1974; vive a Londra). Il quale, piuttosto che illustrare forzatamente un testo inaccessibile, preferisce saggiamente interpretarlo come archetipo d’una forma letteraria, deducendovi, più che una serie di topoi codificati, i presupposti creativi di fantasia e libertà. Di barocco, in questa personale, sopravvive altresì una latente inclinazione alla teatralità, intesa, più che come fine “meraviglioso”, quale serbatoio iconografico.

Ecco allora ballerine, clown, bambini e uomini in doppiopetto, tratteggiati a mo’ di silhouette e bozzetti in un’onesta e gradevole serie di acquerelli dai toni limitati e discreti, un quasi- bianconero ravvivato di rosso, in cui una mano esperta e delicata, più che stiracchiare parallelismi in chiave contemporaneizzata, abolisce precisi cronotopi di riferimento, in nome dei principi di atemporalità e astrazione intrinseci alla fiaba (logica in cui s’inserisce la divagazione cromatica verde, richiamo all’usitato bosco). Una messinscena officiata con l’acqua del Golfo, raccolta in una fiaschetta e inviata Oltremanica all’artista per diluire i colori, con un’operazione performativo-concettuale che si riallaccia al “liquido” incipit del Pentamerone (abusiva trasposizione grecizzante del titolo originario): le lacrime versate da Zoza in una brocca per risvegliare dalla mortale fatagione il principe Taddeo di Camporotondo. Azzeccati alla scenografia dell’allestimento, più che organici all’economia espositiva, i due wall painting neri, dove spiccano da un lato l’immancabile (e blandamente minatoria) morale della favola, sentenziata a punto-croce su un bianco pendant, e dall’altro, sotto l’astro suprematista del cuneo scarlatto, un pentagramma, allusione al tempo della narrazione e all’impercettibile installazione sonora, generata da una rudimentale scultura musicale “suonata” per un’ora da Flamm: un rocchetto rivestito di stoffa nera, il cui fruscio evocherebbe lo sciabordio marino.

Un trompe-l’oreille la cui povertà visiva viene ingentilita dalle sottostanti piume d’oca, pindarico invito a sprimacciare un altro classico del genere: i Contes de ma Mère l’Oye di Perrault, altro illustre debitore di Basile. Se avete una Giornata a disposizione, fatevi cuntare la storia di una certa Gatta Cenerentola…

 

anita pepe

mostra visitata il 15 maggio 2008

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