L’ultimo maestro del ‘900 a pochi mesi dalla scomparsa
Quando morì lo scorso maggio, a ottantadue anni, molti necrologi titolarono “Novecento addio” o cose simili. In effetti, con Robert Rauschenberg se ne andava l’ultimo Maestro del Secolo Breve, “anello di congiunzione” tra le istanze più significative che nel Dopoguerra si erano incrociate tra l’America e l’Europa, dov’era arrivato per la prima volta nel 1952 insieme a Cy Twombly (poco dopo aver dato vita, insieme a John Cage, a Theatre Piece #1, oggi considerato il primo happening della storia). Eppure anche questa definizione sarebbe andata stretta al texano che, iscritto via via d’ufficio a correnti e movimenti, dal New Dada alla Pop Art passando per l’Espressionismo Astratto, si era sempre mostrato riluttante verso le categorizzazioni di comodo, in nome di una libertà creativa e di una voglia di sperimentare (nel 1969, tanto per fare un esempio, entusiasmato dallo sbarco sulla Luna aveva addirittura fondato insieme a due ingegneri l’organizzazione Experiments in Art and Technology, creando una serie di litografie con materiale fornitogli dalla NASA) cui non aveva mai abdicato, nel corso di una carriera alla quale neppure l’ictus che lo aveva colpito nel 2002 aveva posto fine, tanto che nel 2003, ristabilitosi, aveva dato vita al ciclo degli Scenarios.
Dopo Luciano Fabro, è dunque a un altro dei grandi recenti scomparsi del XX secolo che il Madre dedica l’appuntamento d’autunno. Non una retrospettiva globale sull’intera attività, ma una zoomata su una circoscritta fetta di produzione, coprodotta dalla Fundação de Serralves, Museu de Arte Contemporânea di Porto e dalla Haus der Kunst di Monaco, per la quale la curatrice Mirta d’Argenzio ha selezionato lavori eseguiti tra il 1970 e il 1976 e connessi dal tema del viaggio. Esperienza fondamentale, obbligatoria per gli artisti di tutti i tempi, ma che Rauschenberg non dovette certo compiere come percorso di formazione. Nel momento in cui iniziò il “Travelling” qui documentato, infatti, l’americano aveva già consolidato fama e maturità, grazie ad una ricerca che l’aveva portato a servirsi, oltre che della pittura, di tecniche come la serigrafia, il frottage, o ad assemblare stoffe, giornali, fotografie e objects trouvés nei “combine paintings”, dove oggetti recuperati e/o rifiutati incontravano l’intervento del colore. Ma fu soprattutto il cartone, materiale ubiquo, “di scarto e morbidezza”, ad affascinarlo: lo usò nudo nelle “Cardboards”, esposte al Museo Donnaregina insieme alle serie “Venetians” (ispirati a quella città che nel 1964 lo aveva definitivamente consacrato con l’assegnazione del Gran premio internazionale di pittura, dopo il quale l’artista ordinò al suo studio di New York di distruggere tutte le matrici serigrafiche, per evitare di ripetersi), “Early Egyptians”, “Hoarfrosts” e “Jammers”.
E sono gli “Early Egyptians” a precisare uno dei tanti legami che Rauschenberg ebbe con Napoli, essendo stati esposti in occasione della sua prima personale partenopea, datata 1974, “naturalmente” presso la Modern Art Agency di Lucio Amelio, nella cui traccia si sono spesso incanalate le programmazioni del museo di via Settembrini 12. Ed è ancora nella mitica galleria di piazza dei Martiri (dove nel ’77 espose anche suo figlio Christophe) che nel 1987 vennero proposti i “Gluts” che l’anno precedente avevano stupito gli spettatori del San Carlo alla prima di “Lateral Pass” di Trisha Brown. Assemblaggi coi quali, si racconta, l’artista aveva brillantemente fatto fronte ad un’imprevista necessità, quando, appreso che la nave che avrebbe dovuto portare le scene e i costumi ideati da Nancy Graves era bloccata nel porto di Genova, realizzò in soli tre giorni una scenografia provvisoria, elaborata con materiali di recupero di metallo e stoffa, da sospendere nel vuoto sul palcoscenico. Tra questi, «un lavandino stritolato che ebbe il suo momento di gloria […] con un proiettore puntato sul buco di scolo». Era “Mobile Cluster Glut [Neapolitan]”, nato dalla fusione tra un lavandino da ristorante e una porzione di bicicletta raccolti nelle discariche di Napoli, e oggi nella collezione al secondo piano del museo. Un connubio tra rifiuti sul quale, ironicamente e provocatoriamente, l’advertising del museo ha giocato nei giorni caldi dell’emergenza, complici i pubblicitari di AM Newton 21. Lo slogan? “Pigliateve ‘sta munnezza”. Da rottamare o riciclare, ai posteri l’ardua sentenza.
(Roma, 23 ottobre 2008)