La mostra di Simon Boudvin da Blindarte
Ridefinire lo spazio. E ridefinire e definizioni. Tende al superamento degli stereotipi Simon Boudvin, che per la sua seconda personale da Blindarte – proprio all’uscita di quel tunnel di Fuorigrotta del quale adora «l’effetto surrealistico» – propone un’evoluzione della propria ricerca e una prémiere, debuttando un medium finora mai sperimentato: il video. Se nella mostra precedente il giovanissimo francese (nato nel 1979 a Le Mans) aveva lavorato manipolando immagini di architetture già di per sé particolari, stavolta il suo obiettivo restituisce il dato reale nudo e crudo, immortalando in quattro fotografie tre discariche e un sito industriale abbandonato. Soggetti che toccano un nervo scoperto a Napoli, pur essendo stati ripresi nella periferia parigina – ma, in fondo le suburre metropolitane si somigliano dappertutto… -, come globale è il problema dei rifiuti e del loro riutilizzo. Perché la società del (concreto o astratto?) benessere produce soprattutto il superfluo. Bello e seducente appena sfornato, brutto e fastidioso da vecchio, condannato al cimitero dell’ammasso e dell’anonimato, a dannare la memoria, e al contempo ad officiare la perpetua rigenerazione, di un consumismo impossibilitato ad arrestarsi. E così stavolta sono i cumuli “allo stato puro”, senza alcun intervento tecnico, ad attirare l’attenzione di Boudvin, che ha scavato alla ricerca di una visione alternativa, scevra da sociologia o politica o estetica del rifiuto. Discarica non come spregevole antipaesaggio, ma come luogo “aperto” e mobile, libero e instabile, condizionato da concentrazione demografica, azione del tempo e capacità di smaltimento, che si forma e si trasforma in base a un elementare principio di “vasi comunicanti”, per cui un posto si riempie quando un altro si svuota. È questo il meccanismo che muove pure l’edilizia, esplorata in “The architect”. Titolo ironico, per un video che ha ancora una volta come sfondo uno spazio anarchico e dimenticato, una fabbrica alla periferia est di Parigi demolita due anni fa, cui si contrapporre la perfezione del cubo. Forma classica e dogmatica, che s’inserisce in modo del tutto spurio tra i detriti di cemento e le travi d’acciaio, e in maniera performativa: all’interno del “dado” metallico è infatti nascosto l’artista, che rotola tra le rovine del presente senza riuscire ad instaurare con esse alcun rapporto. Quasi una lezioncina per i progettisti di cattedrali nel deserto, circondate da uno sfascio cui nessuno (compresi loro) ormai fa più caso. Rapidamente assorbito dall’occhio di una modernità che, come un’araba fenice storpia, s’illude di rinascere ammucchiando le proprie ceneri.
(Roma, 8 febbraio 2009)