La scultrice serba Jelena Vasiliev alla galleria Franco Riccardo
L’equazione è scontata, ma non è esatta. Perché dire Serbia non significa automaticamente dire guerra o, per usare un’espressione cara agli storici, “polveriera balcanica”. Non è così, ad esempio, nel lavoro di Jelena Vasiljev. Non è così perché i suoi lupi, che aggrediscono in forma di wall drawing o di sculture le pareti della galleria non nascono direttamente dagli orrori dell’ultimo tra i conflitti fratricidi del Secolo Breve, che certo non è passato senza lasciare tracce nella vita e nel lavoro della giovane artista, ma da considerazioni più universali. Anzi, semplicemente da uno sguardo sulla realtà. Il lupo è il cattivo per antonomasia, la bestia bramosa e malvagia descritta dalle fiabe, il temibile ingannatore dai denti aguzzi e dal corpo macilento, i cui ululati gelano il sangue. Ma lo stesso uomo che insegna a odiarlo non è da meno. E allora scattano i lupi, corrono in tutte le direzioni, ossuti e svelti, ma candidi, impastati con materia grezza e con materia viva da una serba dal curriculum artistico tutto italiano: laurea in scultura a Brera, dopo un singolare percorso umanistico e ginnico in patria, tra le lettere classiche e il karate. Formazione che dà la misura di un eclettismo incline a servirsi anche del corpo come strumento espressivo: testimoni, il video e il “relitto” di un’azione inscenata nella torinese Villa Capriglio, dove la Vasiljev bolliva in un enorme calderone verdure e rami da lei stessa meticolosamente rivestiti di carne, offrendoli poi agli astanti. Invito alla catarsi collettiva che, forse più per analogie “etniche” che per modalità e contenuti, fa venire in mente la Marina Abramovic di “Balkan Baroque”, che alla Biennale di Venezia del ’97 vide la grande performer di Belgrado (poi premiata col Leone d’Oro) intenta a pulire una catasta di ossa insanguinate. La Vasiljev incassa “sportivamente” l’inevitabile paragone: «È un accostamento che mi fa onore, la ammiro molto». Del resto, la Abramovic è l’unica artista serba conosciuta, aggiunge, non senza un pizzico di malizia nei confronti di un mondo dell’arte che fa tanto il “globale”, ma alla fine ha ancora un orizzonte alquanto limitato. La sua invece, precisa, era «una semplice cucina all’aperto», sebbene dotata di una valenza rituale e di un cerimoniale complesso fin dalla preparazione, che imponeva la scelta di legni «commestibili» come alloro, prugno e ciliegio per costruire lo scheletro articolato di queste sculture non prevedibili. E che, naturalmente, dovevano suggerire le sembianze del suo animale-feticcio. Il che sarebbe quasi un’esortazione al cannibalismo, a volersi impelagare nei facili parallelismi che portano dritti all’homo homini lupus di Hobbes. Pessimismo? La Vasiljev scuote la testa: «Io credo nell’essere umano. La mia è una provocazione», attraverso una metafora non troppo complessa, «perché l’eccesso di cultura diventa un limite quando si usa come giustificazione. E l’artista non deve dare giustificazioni». Neppure lei, che si difende dall’accusa di negatività facendola rimbalzare su un presente inconfutabilmente, obiettivamente difficile. Per sopravvivere al quale anche il classico “in bocca al lupo” serve a poco.
(Roma, 8 aprile 2009)