I mille perché dell’esistenza nei legami di sangue

10 luglio 2009

Matteo Sanna alla Changing Role

Il titolo “Bloody party” farebbe temere qualcosa di cruento, e macabro. Invece è alla pienezza della vita che Matteo Sanna dedica la sua seconda personale da Changing Role (via Chiatamone 26, fino al 12 settembre), riflettendo su quei legami di e nel sangue che iniziano appena si viene scagliati come una freccia in un mondo sconosciuto (“Back to black”). Meglio, forse, cominciare dalla fine, da quella cornacchia travestita da colomba della pace – “Sa carròga” – che, come un’amicizia delusa, simboleggia la cruda realtà che si conficca nella carne fin dall’infanzia. Un percorso da zero a dodici anni con la partecipazione straordinaria di una “culla” unica e speciale: la Sardegna, dove il ricordo privato si annoda ad un’arcaica memoria collettiva (alla cui tipizzazione letteraria hanno contribuito scrittori come Grazia Deledda e Gavino Ledda, fino al recentissimo Salvatore Niffoi). Una terra di rapporti e sentimenti talvolta tragici, ma inossidabili e solidi come la pietra dei nuraghe, la cui asprezza si stempera in una poetica della rimembranza contaminata dai linguaggi della contemporaneità, mentre l’autobiografia evolve verso l’universalizzazione. Così il cordone ombelicale dell’artista, conservato in un astuccio come un gioiello, trasforma una tradizione locale in un’operazione “manzoniana” dalla cifra iperbolica (100 euro per ogni mese di vita, a partire dal 1984), e quanta light art è passata sotto i ponti prima di giungere a “Ponte Ponente Ponte Pi”, girotondo di neon intitolato come la filastrocca puerile, a simboleggiare come l’anticonformismo possa condannare precocemente all’emarginazione. Il peso dell’essere aumenta nella fragilissima adolescenza, quando sogni ed incubi affiorano nella notte come la pinna di uno squalo (“Sleeping with the ghosts”), e iniziano un accerchiamento recidivo, rendendo ancor più incerto il cammino di “Bcome – Bcause”, bella e candida statuina sospesa in estatico, pericolante equilibrio evolutivo. Semplice il filo, esplicito il messaggio visivo: un “soggetto”, insomma, nient’affatto “sottinteso”, parafrasando la sequenza di foto in cui l’impronta del braille è rimasta sul polpastrello dell’indice, segno di una gioia dell’apprendimento che costituisce l’aspetto positivo di una consapevolizzazione non sempre piacevole. Mescolando riso e (veri) denti, “Sweet misery” retrocede infatti ai non lontani tempi in cui, nelle zone disagiate, i pacchi alimentari elargiti dalla pubblica assistenza venivano barattati con altri generi necessari. Il ribrezzo si muta in polemica davanti a “Black guardian”, crocefisso rivestito di latex nero che denuncia come l’apparato ecclesiastico abbia soffocato il messaggio evangelico sotto la coltre di dogmi impartiti dal catechismo ufficiale. Il lato oscuro dell’esposizione si tinge di gotico nel “Portrait of Italian family”, foto-matrimonio tra cultura dark e iconografia barocca, per segnare, perentorio, l’epilogo in “A vision is just a vision”: un foro di proiettile sul pavimento, a indicare la folgorazione del primo amore. Che così davvero non si scorda mai.

(Roma, 10 luglio 2009)

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