Davide Le Grazie

28 giugno 2010

Torino, Marena Rooms

Ampi spazi e campiture piatte sullo sfondo. Decorativismo e iperrealismo in primo piano. Ecco i primi due “livelli” di una mostra che mixa iconografia antica e codici visivi contemporanei…

Domandina oziosa: potrebbe Davide Le Grazie (Torino, 1972) scalare l’Olimpo dei “giovani” aureolati, quelli che mietono premi e mostre in fondazioni potenti, e magari s’arrampicano su su fino a qualche bi-triennale? Di primo acchito – e nonostante un paio di buoni piazzamenti in curriculum – la risposta sarebbe un sonoro: no. E non tanto per oggettive ragioni anagrafiche, quanto perché la sua pittura è troppo “pittura”, troppo devota alla perfezione della resa. Calligrafia snobbata dai palati trendy. Per giunta, l’artista non ha avuto la prontezza di indossare la casacca del Pop Surrealism o del Low Brow, altrimenti sarebbe stato promosso in una categoria più up-to-date di quella dei “nuovi pittori della realtà” (ma perché bisogna per forza dare del “nuovo” anche all’intramontabile?), così acrimoniosamente bypassati dalla critica di sistema. Ad ogni modo, l’interrogativo resta comodamente a disposizione del pubblico, tale e quale ai Layers-livelli proposti da questa personale che, nella Torino austeramente minimal-poveristaconcettual-sandrettiana, stupisce alquanto col suo carnevale di colori accesi. Quadri che sembrano fatti al computer, tanto impercettibili sono le imperfezioni della simmetria, ma dove nessun mouse ha messo lo zampino: oli su tela dagli sfondi rossi, verdi, azzurri, o “imbarocchiti” dal nero. Barocca è pure l’icona onnipresente, lo stemma, accompagnata da fregi, arabeschi e svolazzi vari che inseguono la metamorfosi, ora radicandosi in vasi sanguigni, ora ramificandosi nelle corna di un cervo.

E kitsch, dunque “barocco”, è uno stile che in campo aperto semina a distanza cigni e modelle di raggelante bellezza, scritte a caratteri gotici e motti mistici, corone rutilanti e bucrani da memento mori, infine toglie muffa all’araldica tirando a lucido un cuore fiammante (lo stesso che altrove pare essere scappato dai polpastrelli di un dolce Gesù parrocchiale) e piazzandolo sul muso di un’auto di lusso. Noblesse oblige, sempre. Cavaliere del sacro e del profano, Le Grazie si diverte a compiere scorribande nell’iconografia tradizionale e nel suo emblematico zoo: l’ariete del Sacrificio d’Isacco caravaggesco, il cervo del Sant’Eustachio di Dürer.

Ma, se il pennello si fa notare per tecnica, un po’ più scolastiche paiono le installazioni: ancora trofei di teschi e, in mezzo a un fascio di rami, il poliedro di Melencholia I, tra le opere più stratificate in quanto a interpretazioni dell’intera storia dell’arte. Layers d’altri tempi…

anita pepe

mostra visitata il 12 giugno 2010

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