Biennale Architettura 2010
Omologo veneziano. Snapshot dall’ultima Biennale di Architettura, sempre più simile a quella d’Arte (e viceversa). Un male? Un bene? Piuttosto, un dato di fatto che sollecita una riflessione.
Se solo non incalzasse il dilemma: “Ma dove e quando l’ho già visto?”…
Da quando gli architetti si son messi a fare gli artisti, e da quando gli artisti si son messi a fare di tutto, non ci si capisce più niente. Così, un anno sì e l’altro pure, il ritornello a Venezia è diventato: “Questo lo potrebbero lasciare pure l’anno prossimo”, indifferentemente riferito al progetto presentato per la Biennale d’Arte o per quella di Architettura. Visti i tempi di austerity, il consiglio non sarebbe disprezzabile, se non fosse emblematico di una situazione ibrida che non si sa se provochi più disagio, interesse o rassegnazione tra addetti ai lavori e visitatori. I quali non fanno in tempo a dimenticare che si trovano a dover ricordare dove e quando si è vista la tal cosa. In ciò agevolati dalla diffusione delle immagini su siti specializzati e social network, dove la caccia allo smascheramento del déjà vu si fa implacabile.
Neanche stavolta è stato troppo diverso. E ci si è messa pure la direttrice Kazuyo Sejima, la quale: apre l’Arsenale con la “scultura” di Smiljan Radic + Marcela Corea; sbandiera uno spottone in 3d (su se stessa) griffato Wim Wenders; convoca uno che architetto non è come Olafur Eliasson; fa “performare” l’indefesso Hans Ulrich Obrist; dissemina foto qua e là (Niedermayr, Lambri); seleziona anti-strutture come l’impalpabile ordito dei giapponesi junya.ishigami+associates (che s’è preso il Leone d’Oro e le maledizioni dei fotografi) e la “stanza” polifonica di Janet Cardiff (che della Biennale – d’Arte – era stata ospite nel 2001).
Ed è vero che Kosuth non ha l’esclusiva del genere, ma che c’azzecca in questo contesto la scritta luminosa di Cerit Wyn Evans? E forse la Fray Foam Home di Andrés Jaque Arquitectos non somiglia, più banalmente, a un grande mobile? Il tutto in una disposizione vivaddio ampia, tesa soprattutto a valorizzare le singole “opere”. Però, come a dire: limitati topografie, plastici, diorami, rendering e modellini vari, largo a pratiche e linguaggi tradizionalmente appannaggio delle arti visive.
Ai Giardini, poi, s’incontrano curiosi “scambi culturali”: la Gran Bretagna inalbera una costruzione in legno che a qualcuno ricorderà il discusso Padiglione tedesco dello scorso anno (realizzato non a caso dall’albionico Liam Gillick), segno che lo stile-Ikea non è ancora tramontato; la Germania tinteggia le pareti, affollate di disegni, con lo stesso rosso cupo adoperato nel 2009 da Elmgreen & Dragset nell’inquietante “casa” Danimarca (che, dal canto suo, poteva restare in loco). E che dire del take away consacrato da Bruce Nauman (guarda caso, trionfatore della 53. Esposizione internazionale d’Arte…), ripreso da Croazia, Israele e Grecia?
La passeggiata tra le partecipazioni nazionali stuzzica ulteriormente la provocazione: quanti allestimenti potrebbero essere “riciclati” tra un pugno di mesi?
Un rapido excursus, giusto per dare qualche spunto, da verificare eventualmente de visu. Partendo dal Canada, col fascinoso intrico trasparente della sua “foresta artificiale” e digitale, tramata di sensori; proseguendo con l’Ungheria e i suoi corridoi di matite penzolanti, a centinaia; e ancora con la Russia, che accerchia lo spettatore con un paesaggio a olio. La Grecia preserva in un’Arca i semi della biodiversità; la Polonia propone di arrampicarsi fino all’Uscita d’emergenza; la Romania impone l’esperienza 1:1 di una mastodontica mole bianca. E il monumental, almeno inteso come proporzioni, si prende la sua rivincita altresì presso il fulgido Egitto e l’Austria Under Construction.
Ma il vero colpo di genio lo azzecca il Belgio, che passa in rassegna materiali “recuperati” come parquet, moquette, sedute e ringhiere sotto un titolo passepartout, Usus/Usures, che concettualmente parlando – potrebbe giustificare una presenza alla Biennale d’Arte. Nonché, a voler essere blasfemi, mimetizzarsi in una bella rassegna sul Minimalismo.
anita pepe
mostra visitata il 26-28 agosto 2010