Milano, Riccardo Crespi
Eclettismo. Questo il principio ispiratore di una personale che insegue la meraviglia attraverso il virtuosismo. E dove – giochetto polisemico – la materia è la materia…
La definizione di un preciso indirizzo, la cristallizzazione di un codice univoco non sono certo tra le principali preoccupazioni di Gal Weinstein (Ramat Gan, Israele, 1970; vive a Tel Aviv), tali e tante le diramazioni della sua urgenza creativa. Una personale ricca, magari un po’ dispersiva, ma convincente e piacevole in quanto a manipolazione virtuosistica di materiali perlopiù poveri, quotidiani.
La paglietta d’acciaio, ad esempio, utilizzata per disegnare serie di autoritratti o paesaggi: “wool drawings”, li definisce l’artista, in cui la fibra metallica compone chiaroscuri e contorni, figure dall’impressione sfumata e mobile, soprattutto nelle selve folte e vaghe di Ignition divorate dalle fiamme. Tout passe tout casse tout lasse, insomma:
una realtà inafferrabile e mutevole, come la Luna che solca il cielo in The blanch moon, video alquanto avulso dal contesto e debole sul piano formale e concettuale, specie se paragonato ad altri pezzi di maggior impatto.
Notevole infatti l’effetto scenografico delle installazioni al piano inferiore, dove spumose matasse simulano colonne di fumo che s’innalzano dagli pneumatici: fake palesemente ispirato agli stereotipi di tumulti di piazza, rivolte, guerriglie urbane. E, accanto all’esplosione collettiva, la doppia chiave identificazione-identità insita nelle macroscopiche impronte digitali, che una resa analitica quasi sfrangia in corpose orme pittoriche.
Sfugge l’”unitarietà” suggerita dal curatore – ” soggetto della mostra è il carattere complesso e ambivalente di ogni manifestazione sociale, ma anche l’ubiquità dei nostri atteggiamenti e della nostra stessa identità” -, e pare anzi che il fil rouge di questa personale, se proprio lo si volesse trovare forzando un po’ la mano, si dipani secondo un rapporto tra forma e contenuto che decisamente non vede il secondo prevaricare sulla prima. Anzi, in assenza di messaggi criptici o pregnanti sotto il profilo politico-ideologico, deliziosamente ingenua appare la perspicuità di Small Anthem, una “striscia” di calciobalilla dove una disciplinata schiera di calciatori si coalizza in un’inutile barriera, visto che la fragile porcellana di cui sono fatti andrà in pezzi al minimo urto.
In tanta eterogeneità, potrebbe mai mancare la fotografia? Il soggetto è di nuovo l’artista stesso, “bloccato” dall’obiettivo nell’atto -vano
-di saltare la corda che gli tiene legati i piedi. Ancora una volta, paradossalmente, è una prospettiva “soggettiva” a farsi strumento e manifesto di una personalità eteroclita. articoli correlati
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anita pepe mostra
visitata il 19 settembre 2010