Milano, Pac
Il tempo delle effusioni cruente è finito. Un percorso “sintetico, non antologico” che potrebbe preannunciare una svolta. Ma per ora l’opera è ancora al nero…
“Spegnete i cellulari”: la preghiera accoglie i pochi fortunati che alle 19 in punto varcano l’ingresso del Pac. Eppure suonerie d’ogni tipo, mescolate al clic di macchine fotografiche e smartphone, continueranno a turbare il religioso silenzio della performance di Franko
B. (Milano, 1960; vive a Londra). Anzi, della doppia performance, visto il prologo fuori programma dell’assessore Massimiliano Finazzer Flory, che appare con volto e mani dipinti di nero a leggere un passaggio de Il corpo, luogo di utopia (e di insondabili “altrove”) di Michael Foucault.
Ieraticamente presente, invece, il corpo dell’artista, nudo e total black, seduto di spalle agli spettatori. Tutti col fiato sospeso. Finché il corpo dell’artista si alza e, lentamente, attraversa la sala accarezzando gli animali tassidermizzati, ricoperti con colate di acrilico dense come pece; raggiunge un orso impagliato e lo porta -quasi danzando – dall’altro capo della “manica lunga” del padiglione; ripete il percorso all’inverso trascinando uno scaffale, poi sparisce. Un attimo di disorientamento, l’accensione delle luci, l’applauso. Alquanto tiepido. Qualcuno, addirittura, scuote la testa.
Cos’è accaduto? Niente di grave: semplicemente Franko B., alla soglia dei cinquant’anni e di una nuova maturità, ha proposto altro. Svelando inconsciamente una contraddizione del pubblico: la bulimia di nuovo, e insieme la riluttanza a svezzarsi dai cliché. Insomma, la libertà dell’autore non ha corrisposto alle aspettative – o alle abitudini – di quanti, come fossero al Colosseo, trepidavano in attesa del sangue.
Stavolta è un corpo buio come la notte, che ha eclissato il personalismo dei tatuaggi “biografici”, a veicolare la muta condivisione del dolore, con una delicatezza e una pietas ormai inusitate. Niente passerella, niente ostensione rituale, bensì il pudore elegiaco di una compassione universale (gli stessi animali imbalsamati sono stati “adottati” in un mercatino londinese e “rivitalizzati” dall’arte), un afflato d’amore tra esseri sferzati dalla stessa burrasca bituminosa.
Niente di lugubre, nonostante i teschi e le morte spoglie; neppure i “black paintings”, bilanciati dalla francescana luminosità delle tele “disegnate” col filo rosso.
Lodato all’unanimità l’allestimento: l’accesso cruciforme alle foto Love in times of pain, la Forest di uccelli neri stagliata contro il bianco abbacinante (che replica alla base dei trespoli il leitmotiv della croce greca), la rossa vetrata sul giardino. Tra video e scatti di precedenti performance, pezzi di repertorio come le panche da chiesa dorate, quadri con baci omo, l’uomo al guinzaglio di Abu Ghraib, bambini soldato, bambini pugile o bambini accovacciati in un angolo, tanti, tanti fiori. Nessuno scandalo preconfezionato a intaccare i doni di un cuore innocente.
anita pepe
mostra visitata il 9 ottobre 2010