La munnezza è al centro dei nostri discorsi. Se ne parla come della malattia di un parente. Ecco: la città è un parente all’ospedale, di quelli che danno fastidio, dimenticati a ferragosto in mezzo alle piaghe e al sudore.
Ci si informa reciprocamente: Come sta la munnezza nel tuo quartiere? Ci sta? Quant’è alta?
Altezza, peso: Questo è niente, siamo solo a millequattrocento tonnellate, finché siamo sotto le duemila…
Altezza, peso, età. Chi conta sedici, chi diciassette anni. Tra un po’ la munnezza diventa maggiorenne, potrebbe andare a votare. Anche se credo ci sia già andata, e piuttosto spesso.
E così, all’aperitivo, si parla di munnezza. A cena, al telefono, in chat, alla fermata degli autobus si parla di munnezza. Un occhio alla palina degli orari, un dito puntato verso la catasta di fronte. Il livello dei cumuli misura la febbre, pretesto per attaccare bottone con chiunque. Noi non restiamo mai senza argomenti. Si impreca contro la munnezza, la si guarda rassegnati, si tira dritto come davanti a un morto sparato. In mezzo alla munnezza si va a lavorare, gli sposi si fanno le foto. Una vecchia ha trascinato una sedia fuori la bottega di un macellaio, impassibile sorveglia una pila di uova. A un metro, cresce un mucchio di rifiuti. Gli africani hanno sciorinato borsette e chincaglieria sul marciapiedi, le ragazzine si fermano, toccano, contrattano, provano occhiali e orecchini. Il cassonetto traboccante è lì accanto.
La geografia della munnezza, poi, riserva sorprese. La vedi spuntare sugli spartitraffico delle strade principali, ma poi ti infili nei vicoli e a terra devi impegnarti per trovare la carta di un chewing-gum. Il tumulo fetido può sorgere a due passi dalle boutique più rinomate, e lasciare in pace i bassi. Qua e là mucchi coperti da teli di plastica, tentativi di sigillare il tutto, di “impacchettare” la merce, caso mai qualcuno si decidesse finalmente a prenderla.
Alcuni si dichiarano fortunati. Abitano sui cantieri perenni della metropolitana, ciclicamente bloccati dai ritrovamenti archeologici: Almeno lì la spazzatura non la possono buttare. (Per ora).
Stavolta ho portato solo scarpe chiuse. Ma quel che mi impressiona è che mi pare di essere l’unica a tapparsi naso e bocca davanti alle turpi colline. Gli altri mi sembrano semplicemente abituati. Oppure si sono organizzati diversamente. Nei ristoranti si mangia all’interno o nel dehors. Aria condizionata e arte di arrangiarsi.
Cammino e mi sento uno di quei cerusici e protofisici che giravano per le città appestate. Invece delle mie cinque dita, ci vorrebbe una di quelle maschere col naso a becco, imbottite di spezie ed erbe medicamentose. Ma almeno allora passava il carro dei monatti, qui solo ogni tanto un lampeggiante della scorta annuncia il prelievo.
La sera ci si congeda dagli amici tra due montagnole gemelle, dirimpettaie nella vena che corre dietro la strada dei grandi alberghi, a bagnomaria in serate senza brezza, aria già irrespirabile.
Quali sono i profumi della città, quali erano? Chi se li ricorda?
Se mi trovi murata dentro, usa l’altro ingresso, quello del vicolo… mi avverte A., quando chiedo se posso passare da lei. E in effetti la trovo murata dentro. La saracinesca del suo ufficio – palazzo storico nel centro storico patrimonio Unesco – è tappata da un metro e mezzo di rifiuti. Faccio come mi ha detto, svolto l’angolo e suono il campanello. Trovo A. alle prese con la frustrazione dell’ennesimo reclamo inascoltato. È ciò che mi ha risposto quando le ho chiesto come stava. Non mi ha parlato di lavoro, amori, vacanze. No. La munnezza ci ha mangiato la vita, a tutti quanti. Dovunque siamo rimasti, dovunque siamo andati e fuggiti, ci portiamo la vergogna scritta in fronte. Ci ha inseguiti, ci ha fatto balbettare il nome della nostra città, il nome che a tenerlo in bocca ci scheggia i denti.
Mi siedo di fronte ad A., chiacchieriamo un po’. Ma la situazione, a pensarci bene, è assurda: al di là del muro c’è un metro e mezzo di rifiuti. Mezzo metro di rifiuti ci impedirebbe di uscire se per caso l’altra porta, quella sul vicolo, si bloccasse. Un metro e mezzo di rifiuti fermenta a pochi passi da noi. Ma la cosa più bella è che, proprio dietro l’angolo, c’è una specie di isola ecologica protetta da inferriate. All’interno, un gruppo di cassonetti. Vuoti.
La munnezza siamo noi. Attenzione, nessuno si senta escluso