I piloni fanno il fiume più bello

8 novembre 2011

E alla fine eccoci qui. Tutti sul fiume. Le scuole sono chiuse e noi siamo sul fiume. L’acqua marrone ha ingoiato l’argine e gli alberi, quelli che vivono abbarbicati all’argine, affiorano nel fango come sterpaglie. Come quelle che il fiume trascina via. Il fiume non ci guarda, non ci vede. Il fiume se ne fotte. Io, spettatrice del mare, e convivente del fuoco, diffido del fiume.
Oggi sono tutti sul fiume. Pure quelli che al fiume non ci vanno mai. Io, per esempio. Non amo il suo odore. Mi piace, unica cosa, quell’ansa che curva, un po’ più ampia, dopo l’isolotto scabro che gratta il letto nel mezzo. Respiro d’un gomito, nelle giornate belle con un po’ d’immaginazione pieghi oltre e ci vedi un paesaggio ad olio. Qui il Padre Eridano è  quasi un rigagnolo.
Il fiume mi lava via i pensieri, il mare me li strappa. Col mare, pertanto, ho da combattere. E pazienza se non riesco a trattenere qualcosa. Tanto lui, prima o poi, me la restituirà.
È il lunedì. Il lunedì dopo. Dopo il pericolo, il lutto, l’allarme. Dopo le transenne di plastica bianche e rosse, i lampeggianti blu dei vigili urbani e le macchine parcheggiate sui dossi, nel caso in cui.
E le facce del lunedì, sul fiume, le facce della città mezza fermata sono… sollevate? No. Le facce sono così: come deluse. Indifferenti. Il fiume non ha toccato nessuno, eppure nessuno sembra felice. Come se avesse avuto voglia di finire in un tg nazionale, o sotto sotto avesse chiesto al fiume di portarsi via quel brutto cielo di zinco, infeltrito come una vecchia cappa militare. L’acqua strozzata lì, in quelle nuvole tumefatte appese in alto. Troppo, per vomitare sulla terra lo scampato pericolo.
In un paese della mia regione d’origine, regione con dissesto idrogeologico da primato, c’è una tradizione. Una volta all’anno, in un posto del Salernitano chiamato Campagna, gli abitanti deviano il corso del fiume lasciando che dilaghi per le vie del paese. Il momento liberatorio della festa, l’illusione lustrale.
Nella regione che abito adesso, periodicamente vengono allagate le risaie. Una piccola alluvione. Regolare, irreggimentata. Produttiva e motivata.
È lunedì mattina. Il fiume non è più il mostro che faceva paura (davvero?) e la città profuma di biscotti appena sfornati. Le nuvole si sono diradate. Io mi guardo la punta delle scarpe, e la falda del cappotto nero. Calpesto il marciume che tutti calpestano. Solo i ragazzi ridono.
Vorrei essere a Parigi, vorrei essere Baudelaire, vorrei essere maudit. Vorrei essere in un parco a rovistare tra le foglie secche e le castagne selvatiche con la punta del mio elegante bastone da passeggio, e i mezzi guanti di lana nera. Vorrei essere un uomo. Osservo il ponte, le sue tozze campate. Quando le acque si ritireranno, contro i piloni probabilmente resterà il solito fascio di rami che ci sono andati a sbattere. Staranno lì per mesi, fino alla primavera e oltre, senza che nessuno li tolga.
Mi rifugio tra le luci del porto, strofinandomi contro un sorriso.

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