Lunga vita alla Triennale

22 marzo 2012

Gabriel Orozco_ La isla de Simon_ 2005_ C-print a colori_ Cm 40.6 x 50.8. Edizione di 6_ Courtesy Marian Goodman Gallery, New York

Si parte ab ovo. Nel senso che la mostra inizia proprio così, con quella specie di ile flottante che altro non è se non una pancia arrotondata dalla gravidanza: quella della moglie di Gabriel Orozco, affiorante come un guscio dall’acqua, simbolo primigenio di fertilità. Prima ancora, però, ci ricorda Anish Kapoor, c’era l’embrione, la bolla d’aria scoppiata a forzare il chiuso monolite. Di qui in avanti, la strada da percorrere è lunga. Anzi, è sempre più lunga, come spiega Da zero a cento fin dal prologo: la serie di Hans Peter Feldmann che, per ogni anno dagli otto mesi al secolo, fotografa una persona legata agli affetti o all’entourage dell’artista.
Assodata la conquista di una maggiore aspettativa di vita, il fine – e il pregio – dell’esposizione è quello di presentarla in un percorso didattico di arte e scienza. Attenzione alla preposizione. Questo non è un progetto “di confine”, nel quale le discipline siano ibridate: procedono invece in parallelo, con il comune obiettivo di informare con chiarezza e suscitare curiosità. Con un taglio positivo, più che positivista. Ovvio che il nostro non sarà ancora il migliore dei mondi possibili, ma oggi “il mezzo del cammin di nostra vita” è ben oltre i 35 anni danteschi (se ne sono accorti anche quelli delle pensioni…), nei paesi sviluppati l’intelligenza media è aumentata di circa il 3% ogni dieci anni (nonostante in certi giorni si faccia un po’ di fatica a crederlo), siamo più alti, più sani e più belli, probabilmente anche grazie al bisturi… e magari uno scatto dell’eterna e proteiforme giovinezza artificiale di Orlan non avrebbe stonato accanto alle grinzette imbellettate della lady upper class di Cindy Sherman, o alle giovani altrettanto artificialmente invecchiate dal fotoritocco di Miwa Yanagi.
Insomma, consapevoli che ci sono ancora zone inesplorate e perfettibili, la fiducia nel progresso tecno-fisiologico è manifesta, pur senza nascondere il rovescio della medaglia. Caso emblematico: quello che anni fa era il problema, ovvero la denutrizione o, nella “migliore” delle ipotesi, la malnutrizione, oggi ha lasciato il posto ad un’altra questione, non meno rilevante, quella dell’obesità. Oggi più che mai indice di massa corporea e misura del girovita – e la tinta fru fru dei metri a disposizione del pubblico, magari, edulcora la depressione da rotolino – sono indispensabili per capire la predisposizione a malattie cardiovascolari e altre patologie, fin da piccoli.
E, a proposito di “cuccioli”, viene quasi voglia di tornare a quei primi anni di vita in cui si manifestano straordinarie capacità di apprendimento (allora aveva proprio ragione Bettelheim…), destinate ad essere ridimensionate col passar degli anni e l’imbrigliamento sociale. Ma cosa favorisce il corretto sviluppo della personalità, l’affermarsi del talento? Da un lato risponde l’esperimento di Guy Ben-Ner, incarnazione del nuovo ruolo dei papà-mammi, il quale riallacciandosi al cliché del “buon selvaggio” pare rammentare una quaestio già dibattuta dalla pedagogia rousseauviana. Dall’altro lato la scienza, la fredda, arida scienza, raccomanda di “coltivare i bambini”, dando loro sostegno ed affetto. All you need is love, da zero a cent’anni. Perché il cuore non cessa di battere neppure sotto i capelli bianchi, come racconta senza ipocrisie né falsi pudori il video di Stefania Galegati Shines.
Ma ritorniamo sui binari, riprendendo il viaggio dalla stazione della fanciullezza. Dopo aver giocato con i palloni di ogni foggia, colore e dimensione radunati da Martin Creed, tappa successiva è quella dell’adolescenza, oggi segnata da una precoce maturazione sessuale, non sempre però accompagnata ad un’adeguata maturazione psicologica (e forse, avvertono Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, la casacca di Peter Pan si ripone nell’armadio solo quando arriva un figlio). Gli acerbi nudi un po’ Six-Seventies di Ryan Mc Ginley, o l’installazione di Marcello Maloberti con il giovane che costruisce e lascia scompigliare la propria dimensione con ritagli di riviste patinate. Suggestivo il lavoro di Evan Banden, che attualizza il luminismo dei maestri seicenteschi ritraendo giovanissimi imbambolati davanti a un’unica fonte di luce: il monitor o il display dei loro dispositivi elettronici e digitali. Quanta energia sprecata è invece quella dei disoccupati di Adrian Paci, soprattutto se si pensa a chi resta a lavorare ben oltre l’età del collocamento a riposo, come i “grandi vecchi” che ieri come oggi dominano la scena della politica, della cultura e dell’economia, o come il protagonista della videoinstallazione di John Pilson, che accostando frame narrativi ed elegantemente descrittivi, racconta la giornata di un attivissimo “over”. Una buona sollecitazione verso quel patto di solidarietà generazionale ed una seria politica di investimenti sul futuro (a partire dalla scuola pubblica), oggi assente nel nostro Paese. Sennò a che serve “coltivare i bambini”?

Da ZERO a CENTO, le nuove età della vita_ Triennale, Milano. Ideata e prodotta da Fondazione Marino Golinelli in partnership con La Triennale di Milano_ a cura di  Giovanni Carrada e Cristiana Perrella con la collaborazione di Silvia Evangelisti

Catalogo elettronico su: www.dazeroacentolamostra.it

(21 febbraio – 1 aprile 2012)

 

         

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