Maledetto Caravaggio. Ecco, ho tirato un bestemmione da far venir giù San Luigi dei Francesi e il Parnaso. Ora un fulmine mi incenerirà. Zot.
No, eccomi.
Sono ancora qua.
Probabilmente il Merisi mi ha risparmiata perché ha capito dove voglio andare a parare. L’ultima MIA infatti è stata l’ennesima conferma del fatto che, se non ci fosse stato Lui, oggi chi fa fotografia sarebbe costretto ad aguzzare l’ingegno e ad inventarsi qualcosa. E vantano crediti, ma in percentuali inferiori, pure Vermeer, Ingres, Courbet, Zurbaran, un po’ di barocchi misti e naturalmente i fiamminghi con le loro nature morte: decine di scatti che adescano l’occhio attraverso citazioni letterali e costrutti cromatico-compositivi propri della pittura. E se non sono le luci, sono le pose. Non c’è scampo.
Questa è una delle conclusioni a cui si giunge aggirandosi tra gli stand di una fiera che, per varietà, interesse e buone intenzioni organizzative, ha comunque meritato la folla disposta a spendere 15 euro per visitare i 5 padiglioni+appendice di Superstudio, dove morto un evento (vedi alla voce Design Week) se ne fa un altro.
Personalmente, portafogli permettendo, avrei infilato nel metaforico carrello almeno una decina di opere. Ma, poiché al lettore smaliziato e malizioso generalmente interessa, più della lista della spesa sognata fra le highlights, la pars destruens, in questo asistematico cahier delle perplessità/insofferenze al secondo posto collocherei il filone “etnico”. E se ormai è assodato che tira di più uno Steve McCurry che cento pariglie di buoi, torna l’interrogativo, già affrontato qualche post fa, sui confini tra arte e fotogiornalismo. Che non è disquisizione capziosa in merito a definizioni o categorie, ma domanda candida su quali siano i criteri adottati per destinare un servizio fotografico al book di una galleria invece che alle pagine di un giornale. E ancora, a voler mettere il carico da cento su tanta ingenuità/incompetenza: sfogliando le riviste (di moda, di viaggi, di sport) si vedono immagini bellissime, curatissime, con soluzioni affascinanti, invenzioni d’impatto, location rapinose, corpi scultorei. Insomma, perché alcune sono Arte e altre no?
Un esempio. La serie Altneuland, realizzata nel 2010 dall’israeliano Amit Sha’al, terzo premio al World Press Photo 2011, si basa su una sovrapposizione tra vecchio e nuovo stato dei luoghi. Avete per caso visto qualcosa di simile a MIA? Certo che sì: Permanente presenza di Gea Casolaro, anno 2007. In entrambi i casi bei lavori, bella idea. Stessa idea. Amit Sha’al è un artista? Gea Casolaro è una reporter? In fondo che importa, però riflettiamoci, anche perché probabilmente i loro “prodotti” non vengono quotati allo stesso modo.
Medaglia di bronzo per i furbetti dell’architettura, soprattutto se la foto vira verso l’astrattismo. Un grande “classico” riproposto in varie salse, latore di una confortante lezione: chiunque può piazzarsi con l’obiettivo davanti/dentro un bel monumento, o meglio ancora un edificio griffato da qualche archistar, trovare un’inquadratura sapientemente sbilenca, acciuffare un dettaglio importante, un riflesso curioso, un’ombra emblematica, scattare ed eventualmente rielaborare. Sempre per quanto riguarda le location, giudizio sospeso per le foto dei musei: non è che se una cosa l’ha già fatta Thomas Struth diventa sua proprietà esclusiva, ma tutta questa autoreferenzialità farà bene al colesterolo o sarebbe meglio evitare i fritti?
Quarto gradino per i giovani-vecchi. Che si abbracciano appunto a disegni con la luce, sfocature, esposizioni estenuate, mandala psichedelici e – ovviamente – Caravaggio. Meglio piuttosto i vecchi-vecchi, quelli del bianco e nero ai quali nessuno rinfaccia l’essere stati testimoni, talvolta oleografici, dell’Italia che fu (e forse già “fu” ai loro tempi).
Quinta posizione per le “figurine Panini ce l’ho-ce l’ho-mi manca”. Può accadere, ma rivedere in vari posti gli stessi scatti di Elliott Erwitt può farvi sorgere il dubbio che il vostro tasso alcolemico non sia poi così basso, che voi siate molto stanchi, o che magari ci si potrebbe coordinare un po’ di più.
Fuori concorso i galleristi che specificano orgogliosamente “nessuna post produzione”. Come se la foto fosse un prodotto artigianale, tipo un sandalo Positano. E come se lo sviluppo in camera oscura, sì, proprio quello della sacra pellicola, non fosse pure quello postproduzione. Se qualcuno crede ancora alla fola dello scatto analogico duro e puro, sarà giocoforza portato a demonizzare il digitale. Per il quale, in ogni caso (e per fortuna), non risulta la creazione di un apposito girone infernale.
Comunque aspetto golosamente il MIA-ter del prossimo anno. Ma se vedo ancora foto alla Caravaggio l’urlo di Medusa stavolta lo caccio io. Poi voglio vedere chi mi compra.