Ovvero Una cosa divertente che non farò mai più
Perdonami David Foster Wallace. Perdonami se ti ho rubato un titolo per un evento che poco c’entra con la scrittura. Io pensavo che al Salone Internazionale (!?) del Libro uno andasse per annusare gli editori, prendere contatti con i tipi. Non per ritrovarsi in un megastore tipo Feltrinelli o Mondadori, di quelli che un pezzo per volta si sono rosicati la libreria di don Carmine e la mia tredicesima. Insomma, puoi comprare le stesse cose che troveresti altrove, o magari ordinare su Internet, con la differenza che al Lingotto trovi l’autore che parla e ti fa la dedica. Gli scrittori scrivono soprattutto autografi. Sul momento, oppure già belli e pronti nelle pile allo stand.
Gli stand. Quanti stand. Dal transatlantico alla bancarella. Si capisce subito quali sono i ricconi e quali gli sfigati del Lingotto. Dentro gli stand dei ricconi si sta come pesciolini nell’acquario. Un’ora di fila alla cassa e poi magari te ne esci con FabioVolo, il re degli Autogrill. Schiacciate ai margini, infilate agli angoli dei corridoi, meno illuminate dai riflettori, senza pannelli laccati e plexiglas leccati, le piccole case abbozzano una timida resistenza, mostrando come, tra fiori di Bach e Dieta Dukan, tonnellate di gadget e le eco incrociate dei talk, possano annidarsi gradevoli sorprese e curiosità.
Comunque una persona con qualche velleità letteraria dovrebbe volersi bene e stare alla larga dal Salone. La depressione è dietro l’angolo, quando capisci che, se non sei apparso almeno una volta in televisione, se non sei un cantante, un cineasta, una soubrette o un calciatore, mai e poi mai vedrai il tuo faccione sul totem pubblicitario della tua “opera prima” o della tua “ultima fatica”. E pensi che non è giusto. Fai la conduttrice? Statti sul tuo piccolo schermo. Sei un regista? Bene, incollati alla macchina da presa. Nella vita bisogna fare una scelta, non è che puoi sbarcare sul mercato editoriale così, solo perché il tuo nome vende. Lascia che a piazzare il proprio nome sulla copertina sia il tuo editor giovane, cottimista e sottopagato.
Ah, infatti oggi tira molto pure il precario. Però, appunto, va bene finché è precario. Che ne sarebbe di lui/lei se agguantasse la Fama?
E insomma, si scrive. Donne che corrono dietro ai lupi, impiegati vessati che devono neutralizzare il capo stronzo, insegnanti che tutto sommato se la prendono con filosofia se la scuola va a rotoli… Pure i gelatai. Perché, caso mai ti prudesse la curiosità su come e quando hanno deposto la prima pallina su un cono, quattro informazioni in croce sul sito non bastano. Ci vuole la carta. Palate di carta.
Anch’io, lo confesso, sogno di finire su una palata di carta. Poi magari mi buttano, ma intanto ho qualcosa da scrivere sul risvolto di copertina successivo, eventualmente. Uno nella vita si deve creare dei precedenti. Legali, è ovvio.
Solo che non so come fare. Insomma, immaginatevi la frustrazione di una che ha già enne ottime copertine (grazie ai suoi amici), un gruppo editor e pre-lettori di qualità (sempre grazie ai suoi amici), una decina di buoni incipit (grazie a se stessa), ma non ha un editore. Il libro? No, quello non c’è. Non è importante, pare.
Quindi pensavo di venire al SalTo e svoltare. Magari senza passare in una scuola di scrittura, di quelle potenti e costose, dove ti danno le stesse dritte che trovi da pag. 10 a pag. 22 del libro di testo di antologia (del biennio), ma in modo più suadente e figo.
Poi pensavo che al Salone ci fosse un padiglione pieno di agenti letterari. Un po’ come i broker di borsa. Vendere! Comprare! Comprare! Vendere! Anche di quelli senza scrupoli, che ti fanno vedere il tuo libro appeso a tutti gli alberi del Campo dei Miracoli. Eventualmente, uno può sempre scrivere un libro sulla propria esperienza tra i pescicani dell’editoria. Invece manco quello.
Dice: c’è il self publishing. Ok. Allora mi fermo a parlare con un paio di questi selfisti. Ragazzi carini, però a un certo punto mi dicono che loro non fanno promozione. Che la promozione te la devi pagare a parte. Vabbè, voglio pure pagarlo ‘sto servizio a parte, ma poi il vostro servizio a parte ha contatti con i critici che contano? m’informo, cruda e sbrigativa, come mia nonna macellaia quando investiva sul mattone per i suoi sette figli. E vedo il ragazzo che tentenna.
Tutto da rifare. Manco ‘sto self mi convince.
E pensare che questo doveva essere il Salone della Primavera digitale. Ma io più di una dozzina di e-reader non ho visto, sballottata com’ero tra code e le suddette palate di carta.
‘O burdell.
Scusate il registro decisamente triviale, ma senza questa fragorosa onomatopea non riuscirei ad esprimere altrettanto icasticamente il concetto. ‘O burdell sono gli stand degli editori e quelli dei ministeri, delle organizzazioni umanitarie e dei gadget, delle radio e delle tivvù, delle regioni e delle province che ad un certo punto uno si chiede: Ma è il Salone del Libro o la BIT? Quanto hanno pagato per essere qui? A che pro? (ma non eravamo in tempo di spending review?)
E la gente. Migliaia di connazionali che hanno sborsato 10 euro – ma perché si paga? Il Salone non è forse un’occasione commerciale? Non hanno già pagato gli espositori? Mah -, così tanti esseri umani che uno a un certo punto si domanda: ma se in Italia esistono tutte queste menti leggenti e scriventi, se c’è tutta questa sete di sapere, perché siamo un paese sfasciato?
Su tutto, aleggia un odore di dado da brodo, o di minestrina vegetale, non si capisce. Altro che l’inebriante profumo di carta nuova, l’effluvio artificiale che esala dal cellophane un attimo prima di essere sverginato. Se siete malati di quel genere di feticismo, qui vi passa ogni fantasia. E infatti i punti ristoro sono accanto ai libri (con la cultura non si mangia) e bisogna continuamente stare attenti a non inciampare, oltre che nei passeggini e in bambini che usciranno così traumatizzati dall’esperienza da aprire il primo libro all’Università (se mai esisterà ancora in Italia), in persone che bivaccano un po’ dove capita. Così accade che, mentre filosofi, politologi, giornalisti e musicisti sono impegnati in una presentazione, un metro più in là uno gli mangi in faccia una fetta di pizza. Qualcuno invece s’è portato il tupperware da casa, e bene ha fatto, viste le code chilometriche per una trilogia focaccia-coca-caffè appena sotto i 10 euro.
Il prossimo anno mi porto il panino da casa, medito meccanicamente, prima di ricordarmi che non ci sarà una prossima volta. A meno che: 1) non decida di mettermi con un camioncino fuori il Lingotto a vendere crocché, panzarotti, arancini e panelle (per quattro giorni lo stesso olio si può riciclare); 2) spacciarmi per Elena Ferrante o Matilde Serao e firmare autografi al posto loro. Sì, lo so che una è morta, però mica tutti quelli che vanno al Salone lo sanno.
(per tutte le foto: Daniele Podda)