Irriverente. Sia quando scherza coi santi – quelli canonici e canonizzati, partecipando ad operazioni come Pimp my Mary -, sia quando a finire nel mirino sono i venerati simboli locali (Krum’hero), icone assolute come il barattolo della Campbell’s soup immortalato da Andy Warhol o personaggi storici come Napoleone.
La lente d’ingrandimento che Max Ferrigno usa per deformare la realtà passa sotto l’etichetta di Pop Surrealism. Un approdo liberatorio e curioso, per un artista partito dalla denuncia sociale dipinta su sacchi di caffè, più campesino rivoluzionario che nipotino di Burri. Che poi ‘Burri’ suoni stranamente simile alla parola spagnola ‘burro’, ‘asino’, è pura coincidenza. Questo infatti l’animale-feticcio, semplice e “povero”, di quelle prime prove politiche dedicate ai Sud del mondo. Lavori che, a un certo punto, devono essere apparsi all’autore come un bel vestito, ma non proprio tagliato su misura.
La folgorazione, improvvisa, arriva con la mostra di Takashi Murakami alla Fondazione Sandretto. Anno 2005, prima Triennale di Torino, curatori Francesco Bonami e Carolyn Christov-Bakargiev. Per Max, è un po’ come passare lo specchio e sentirsi Alice nel paese delle Meraviglie. Tutto quello che aveva sempre desiderato è lì, per giunta sotto la nobile dicitura di quell’Arte che lui aveva scelto come mestiere.
E che, partendo dal maestro giapponese, prospettava altre strade. Una delle quali portava dritto alla California e al low brow, ombrello sotto il quale si raccoglieva il fermento di illustratori, fumettisti, cartoonisti già attivi in modo carsico nella cultura underground americana di fine anni ’70 e riconosciuti ufficialmente con la nascita, nel 1994, della rivista Juxtapoz.
Ecco, se non la soluzione, la risposta. Dal suono scoppiettante – Pop – e dall’aura ammaliante – Surrealism.
Perché, se il primo riporta alla plastica, ai giocattoloni passati come “sculture”, ai fumetti, alla riproduzione seriale e alla consacrazione bulemica e veloce del quotidiano, insomma a quelle espressioni spesso bollate come “sottogeneri”, il secondo trascina in atmosfere più misteriose, sfumate e, nel caso specifico, goticheggianti. Così per Ferrigno i soggetti strizzano graficamente l’occhio ai manga anni Ottanta e ai b-movies, ma si colorano sempre più a tinte fosche e inquietanti, perfino quando i protagonisti sono mele e dolcetti (a proposito, se vedete una ciliegina candita, sappiate che è la sua “firma”). Uno straniamento ulteriormente “imbarocchito” da cornici appesantite da tetra ricercatezza, ironicamente contraddittorie rispetto a un linguaggio che, crisi o no, nelle fiere “affordable” spopola.
La tecnica, esercitata con una lunga pratica in studio e di decorazioni “sul campo” (ad esempio scenografie per parchi dei divertimenti), tiene in equilibrio disegno e colore, in stesure di olio e acrilico, su legno più che su tela. Sullo sfondo, fanno capolino giochi di parole, “cover” spiritose e allusioni piccanti.
Ma – domanda spontanea, di fronte alla scelta di vivere nella provincia monferrina – come si incunea questo segmento “di nicchia” nel Piemonte dell’Arte Povera e delle Fondazioni, nella terra delle tradizioni e del luogo comune “bugia-nen”? Non sarà troppo trasgressivo? Certo, il Pop Surrealism da queste parti ha un’affermazione accidentata, però “Torino è più avanti di Milano”, corregge Ferrigno, che proprio all’ombra della Mole terrà prossimamente un’impegnativa personale, protagonisti freaks e pagliacci cattivi alla Dave MacDowell che si ritroveranno in un Circus Maximus.
Infine, provocazione per provocazione: cosa faranno i Pop Surrealisti quando cresceranno? “Intorno a me tutto è surreale”, risponde seraficamente l’artista. Come a dire che la sua non è una sindrome di Peter Pan, ma una specie di colorato rifugio dal presente. E, di questi tempi, come dargli torto?
Max Ferrigno è presente alla collettiva “Il disegno di Napoleone”, curata da Carlo Pesce, fino all’8 luglio nelle Sale Espositive Comunali di Serravalle Scrivia.