È in giornate come questa che Torino dà il meglio di sé. Nebbia, e quella faccia austera e smorta che i boulevard impastati dall’ovatta domenicale possono solo esaltare. Fortuna che sotto i portici s’intravedono i caffè, che sanno di caldo e di paese. Dietro i cancelli chiusi, il Castello del Valentino è una macchia di luce.
Clima giusto per la mostra di Degas, giunta alle battute finali ma non per questo – anzi forse proprio per questo- meno affollata. Atmosfera adeguata ai toni opachi della prima maniera, quella di un poco brillante pittore di storia suggestionato dai primitivi italiani e che tuttavia, sotto la patina accademica, già issa l’acume del ritrattista. Adeguata pure all’“aria irrespirabile” sottolineata dal testo relativo alla Famiglia Belelli, elegante interno fiorentino dove, nel tanfo di un’infelicità “bergmaniana”, s’insinua qualche spiffero partenopeo. Già, Napoli[1]: la città dove un giovane Edgar immortalò il caro nonno Hilaire –qui in mostra, sciccoso nei guizzi di bianco (Mattia Preti? chissà) e nero alla Manet –, proprietario di quel Palazzo de Gas (già Pignatelli di Monteleone, in Calata Trinità Maggiore) che poi, stando all’aneddotica, la parlata popolare storpiò in Palazzo “del gas”. La città dove frequentò il Reale Istituto di Belle Arti, facendosi – caso mai ne avesse bisogno – un’altra bella iniezione di pittura italiana (anche se, va detto, al momento l’Italia “si stava facendo”). Ammirate, ad esempio, le cugine Belelli, Giulia e Giovanna. Due meraviglie che parlano l’una fiammingo e l’altra napoletano: una sbocciata, tutta composta, dal perlaceo Rubens su un nero spagnolo; l’altra con un musetto, dei pugni dispettosi sui fianchi e un piedino da scugnizza degni di un Mancini ante litteram. Irruzione strepitosa, quella di calza bianca e scarpina nera, in un’istantanea che fruga dentro lo spettatore anche quando gli attori sono di spalle: Gennaro Belelli, liberale partenopeo esiliato a Firenze, siede massiccio nella sua poltrona. E sua moglie Laure, zia del pittore, vestita a lutto si staglia come uno scoglio contro il parato, l’ovale puro e severo come una Vergine di Antonello.
La tensione si taglia col coltello, avverte la didascalia. E non è l’unico segnale di pericolo, in un’esposizione dal taglio “naturalismo francese” che smonta ogni romanticheria. La ballerina 14enne, col bel tutù e il fiocco? Ha il “volto scimmiesco” di una popolana, probabilmente avviata ad una carriera da prostituta più che da ètoile. E c’è un tocco di comédie humaine nella carrellata di ritratti mondani (tra i quali sbuca il viso paterno, insolito caso di genitore che abbia assecondato il talento del figlio), negli scatti di vita moderna e sulle piste assolate degli ippodromi. Scalpitar di cavalli in un’infilata di piccole sculture bronzee e poi altre gambe, non meno nervose: quelle delle danseuses. Ecco il famoso Degas, il pittore delle ballerine, che le usò come pretesto per i suoi studi sul dinamismo e per tentare arditi equilibri plastici. Ed è subito fotografia con Prova di balletto sulla scena: una delle tante highlights generosamente disseminate nel percorso, contrariamente alla ahinoi sempre più diffusa formula di mostra “direttamente dal museo XY” che molto promette e poco mantiene. Note dolenti? Le lacune nell’illuminazione, specie tra Muybridge e la ballerinetta di bronzo, quando l’allestimento è così buio da costringere alcuni visitatori a – proibitissimo! – sfilare furtivamente il cellulare dalle tasche per illuminare i cartellini sulle pareti. Finale con paesaggi e nudi: bagnanti ad olio e pastello fortemente stilizzate, dove il colore si perde in tocchi e macchie liquide, nell’ossimoro della linea che ancora racchiude e trattiene. Ancora per poco: il Novecento è alle porte. Anzi, Edgar quella porta l’ha già aperta.
Degas. Capolavori dal Musèe d’Orsay_ Torino_ Palazzina della Società Promotrice delle Belle Arti
(18 ottobre 2011 – 27 gennaio 2013)
[1] Per il soggiorno di Degas a Napoli e i suoi rapporti con l’ambiente artistico dell’epoca, nonché per le notizie relative alle famiglie de Gas e Belelli, vd. gli studi di Rosa Spinillo e Marco Di Mauro.