Prendiamo un’altra immagine. Diversa da quella – certo più dirompente – promossa sulla copertina del catalogo e rilanciata in primo piano su carta e in Rete.
Come perno di una lettura della mostra di Jeff Wall, partiamo invece da Vancouver, 7 dec. 2009, protagonisti lo storico del Costume Ivan Sayers e Virginia Newton-Moss, mannequin in abito d’epoca. Perché questa foto? Prima di tutto perché, banalmente, è stata scattata nella città natale del fotografo. Poi perché potrebbe costituire un manifesto della sua poetica. In senso letterale, delle sue linee guida: la diagonale. Costante geometrica in quasi tutti i lavori esposti al PAC, tagliati su una prospettiva angolare che ne approfondisce l’intenzione immersiva, perfino in opere dal soggetto apparentemente insignificante, o forse ironico e orientato ad una traslazione di significato: la vaschetta/barchetta d’alluminio con un residuo di Peas & sauce è fragile metafora della deriva urbana?
A proposito, che cos’è Insomnia – icona dell’esposizione -, se non il racconto di un naufragio? Eppure, nella sua potente bellezza, contiene un potenziale autodistruttivo: abbagliato, lo spettatore smette di chiedersi cosa ci faccia quel tipo sotto un tavolo (in linea obliqua, naturalmente). Più allucinato di un Goya allucinato, nella solitudine acida e glaciale di una brutta cucina. L’incubo di se stesso. Cosa lo ha condotto in quella bizzarra posizione? Cosa lo schiaccia sul pavimento di graniglia? Tutto – dal flacone di detersivo allo strofinaccio, al pentolino sui fornelli – si fa correlativo oggettivo della veglia disperata cui si riduce l’esistenza. E di incuria e degrado abbondano le architetture in cui Wall fruga, alla ricerca di crepe, finestre sbarrate, ruggine: pretesti per composizioni pittoriche sature e astratte.
Ma torniamo a Sayers e alla donna in costume, così anacronistica. Elemento spurio nell’”Actuality” che titola la mostra, dove la modernità spesso si cristallizza nell’eternità della violenza. Reale, allusa, paventata. Un uomo che punta un fucile immaginario, un panno insanguinato sotto un reticolo, le implosive dinamiche di coppia nel “fotogramma” Mimic, d’apres contemporaneizzato di un olio ottocentesco di Gustave Caillebotte.
Scorci della Comédie humaine d’oggi – il banco dei pegni, gli avventori del nightclub – che dell’“istantaneo” documentario, però, hanno poco o niente. Evidente la costruzione teatrale, a lungo ricercata, artificiosa delle scene, rafforzata da riferimenti più o meno espliciti alla pittura. E sebbene –avverte il curatore Bonami– ricondurre il lavoro di Wall nei canoni angusti del citazionismo sia riduttivo, il ruolo centrale della storia dell’arte – quale fonte d’ispirazione e fattore di consenso – è innegabile. Quella donna che sfoglia i cataloghi, per esempio, pare catapultata da una tela del seicento fiammingo (gli interni, la finestra a lato…). Men move an engine block: invece del motore, i due potrebbero tranquillamente sollevare un Cristo morto da deporre nel sepolcro. Stessa ginnastica, stesso sforzo. Palese l’assenza di casualità.
Riprendiamo un’altra volta la foto di Vancouver, con il lato b della modella e la platea riflesse negli specchi. Fusione di oggetto e spettatore “interno” di primo grado (per parafrasare il lessico della narratologia). Metapittura. Avete indovinato? Sì: i coniugi Arnolfini di van Eyck; Las meninas di Velazquez; la barista della Folies Bergère di Manet (pure lei di nero vestita). Di giochi di specchi, insomma, la storia della pittura è piena. Ma per amplificare l’inclusione dell’osservatore Wall ha a disposizione un’arma in più: il lightbox. Che, oltre a valorizzare il lavoro, ha dalla sua il vantaggio psicologico di una tridimensionalità più inclusiva rispetto alla tela. Totalmente inglobante, anche per il sapiente “gemellaggio” visivo con la struttura di via Palestro (guardate la “scatola” luminosa, poi voltate la testa verso la vetrata…), è Morning cleaning, Mies van der Rohe Foundation. Opera concreta, dove la luce è maestra e raduna tutti gli elementi e le atmosfere: ambra e cristallo si fronteggiano, in un attimo di sospensione perfetta. L’aria è fresca e vergine, divisa tra albore e sprazzo. Tra un po’ l’ambiente verrà profanato dai rumori della vita. Un tempo, tanto per ri-menzionare Caillebotte, si raschiavano parquet; a testa bassa, ma rivolta verso il pubblico. Qui a chinarsi sul secchio è una specie di idolo indifferente, baciato da una tregua del divenire. Rappresentazione lirica del feriale che si fa metafisica.
Jeff Wall_ Actuality_ Milano, Pac. A cura di Francesco Bonami
(19 marzo – 9 giugno 2013)