L’annuncio era preludio alla gita, promessa d’avventura.
Senza l’anonimato dell’autostrada, la monotonia delle uscite.
Jammuncenne pe’ bbascio era l’escursione in città e quartieri che sfilavano uno dietro l’altro, coi cartelli corrosi dalla ruggine a confondere confini inesistenti e indecisi.
Jammuncenne pe’ bbascio voleva dire scivolare per un tratto nella provinciale punteggiata di luci malinconiche, che t’aggredivano come lo spleen di Capodanno, aria bruciata dai botti e stomaco inacidito.
Per chi nasce dalle mie parti è difficile immaginare città staccate, isolate, circondate dal nulla o da campagne a perdita d’occhio, zone industriali, dolci colline, pianure coltivate a riso e pioppi. Chi nasce dalle mie parti vede il Vesuvio, e quella è la natura. Ma se te ne vai pe’ bbascio il Vesuvio lo aggiri. Come al solito. Perché poi, pure se ci campi sotto, il Vesuvio pare che non esiste finché non lo vedi casello casello. O dal finestrino del treno. O dell’aereo.
Tu viaggi, ti muovi, fuggi, e lui sta sempre là. Ti aspetta. Aspetta.
Jammuncenne pe’ bbascio. Papà avviava il motore, e cominciava il film. Certo, i sedili posteriori della Cinquecento non erano poltroncine imbottite, e sui lastroni di pietra lavica tra buche e toppe d’asfalto si ballava la rumba. Pure lo spettacolo, in definitiva, non era granché: lo stop dove nessuno si ferma, l’incrocio che nessuno rispetta, la gente che attraversa a cazzo, i motorini che se ne fottono, i palazzi marci che si crollano addosso, il filobus che sobbalza davanti e rallenta tutta la sfaccimma del traffico (per non parlare del camion della munnezza, ché se lo acchiappi è finita).
A un certo punto Corso San Giovanni si apre come una foce, e i binari del tram, pieni di sassi e di erbacce, continuano la corsa, paralleli alle auto che finalmente possono scassare a volontà le sospensioni sui basoli. Qualcuno di notte ci rimane incastrato, nei binari. Ma il tram passa ancora?
Mio fratello guida e non va pe’ bbascio. Gli piace la sopraelevata.
Una notte, molti anni fa, in macchina – Ti porto a vedere una cosa, e s’infila nel dedalo dietro al Centro Direzionale. È tardissimo, siamo stanchi, ma nessuno dei due ha voglia di tornare a casa. Né di parlare. Tutte le parole sono state esaurite sulle tastiere, al lavoro.
Lui ripercorre mentalmente l’itinerario. Io sbircio i manifesti fosforescenti dei circhi incrostati nei sottopassaggi, i rifiuti ammucchiati sotto i ponti, le puttane e le trans. Poi la macchina rallenta, costeggiando un muro e un enorme cancello, chiuso e cattivo.
– Guarda.
Mi piego da sottinsù, dietro il finestrino mezzo abbassato. Qualcosa di imponente, più alto del muro di cinta, orla il buio. Qui stanno portando le ecoballe.
Perdonatemi: era una spettacolo solenne.
Quando alle elementari mi chiedevano Cosa fa tuo padre?, Gestisce un distributore di benzina, rispondevo diligente.
Papà infatti gestiva un distributore di benzina a San Giovanni a Teduccio.
Una zona di merda, dicevano. E un mestiere di merda. La vigilia di Natale papà finiva di mangiare e scappava a fare la notte. Io e mio fratello andavamo a dormire nel lettone con mamma. Il primo dell’anno papà a un certo punto salutava la tavolata e se ne andava a fare il pomeriggio. Pure le domeniche, spesso lavorava e non ci poteva portare a prendere la cedrata sul Vesuvio o il gelato a Portici. Qualche volta pranzavamo – pasta al sugo, polpette, patate, friarielli – e ce ne andavamo tutti quanti al distributore. Ci mettevamo in macchina e aspettavamo. Aspettavamo. Pomeriggi interi, tra il sole e la polvere, a leggere Topolino. Poi, una volta finite le partite alla radio, e una volta imparato Topolino a memoria, io e mio fratello non sapevamo che fare e così, per passare il tempo, ci azzuffavamo. Dietro il parabrezza, vedevamo ogni tanto le macchine fermarsi al distributore. Papà usciva dal gabbiotto e andava alle pompe. Poi rientrava. Il gabbiotto non mi piaceva perché c’erano solo lattine di olio e puzzava di grasso di motore. Io invece sognavo che papà ci mettesse un chiosco tipo bar, con le caramelle, le cioccolate, la coca cola e l’aranciata, che ovviamente non potevo bere perché facevano male alla pancia.
Oggi io adoro gli autogrill.
Domeniche interminabili. Desolazione: il fantasma di un’aiuola con erbacce secche, il profumo della benzina, i tonfi del pallone e i fischi dell’arbitro da un campetto vicino. Territorio ben delimitato. Guai ad allontanarsi. Del resto, non c’era un altro posto dove andare, se non una pompa di benzina esattamente dal lato opposto della strada, dove caracollava una sorta di miope olandese dalla faccia rubizza.
Ogni tanto, dal gruzzolo delle gioie di famiglia, mi salta fra le mani la medaglia d’oro della Mobil Oil. La medaglia per tutte le domeniche e i cenoni e i pranzi che mio padre s’è perso.
Poi un giorno papà, per la seconda volta in vita sua dopo il matrimonio, si mise la cravatta e andò a lavorare in banca. Era l’anno del terremoto. Così le medie, le superiori e l’università le ho fatte da figlia d’impiegato. Le feste comandate papà se l’è fatte a casa e quando è andato in pensione i colleghi gli hanno regalato un bel quadro.
La Mobil Oil a San Giovanni a Teduccio non esiste più. C’è sempre una pompa di benzina, ma ha cambiato nome. E sopra ci passa la sopraelevata.
Quella che piace a mio fratello.
Insomma, la sopraelevata s’è mangiata la pompa di benzina di papà, relegandola al piano di sotto. Sicché meno male che papà tanti anni fa è entrato in banca ed è andato in pensione. Perché se papà gestiva ancora il distributore faceva una vita ancora più di merda in quanto grazie a quella sopraelevata buttata là in mezzo quella strada è diventata ancora più una strada di merda.
E poi, rispetto a quando papà faceva il benzinaio, pure la gente, sì, pure quella, è diventata più di merda.