A cavallo degli anni Novanta, essere una matricola a Napoli significava pure andarsene a spasso tra una lezione e l’altra, regalandosi spensieratamente all’aria e al sole. In primavera, poi, chi ci pensava più ai corsi di latino e filosofia. Le aule di Corso Umberto e di Porta di Massa erano a due passi dalla città antica, dove tra un bacio e una bancarella potevi imbatterti all’improvviso in quegli enormi… cos’erano? Disegni? Manifesti? Qualsiasi cosa fossero, facevano impressione. Perché erano grandi. Ma soprattutto erano veri, erano vivi.
Avere vent’anni a Napoli, allora, significava uscire dall’Università e incontrare quei pittori di cui avevano appena parlato i professori. Artisti che sui manualoni di storia dell’arte venivano talvolta liquidati in un trafiletto, e invece scoprivamo grandi, immensi.
Nascevano così amori disperati.
Tra quelle carte spalmate sui vecchi muri, ci si divertiva a riconoscere Caravaggio, Battistello, Ribera, Guarino, Giordano. Particolari, qualche volta mischiati tra loro. Era un bel gioco. Poco alla volta, quelle figure diventavano familiari, ed aggiungevano alla conoscenza la comprensione. Una chiave preziosa, per chi cercava di cogliere l’intimo mistero di quelle tele impastate di carne e di sangue, sporche di umanità. Fuori dai libri, dalle diapositive, dalle foto su cui ci si esercitava per i temuti riconoscimenti; scese dagli altari delle chiese e dei musei, quelle persone tornavano ad abitare il mondo, e noi eravamo i loro discendenti.
Il nostro orgoglio, e manco lo capivamo.
Ma chi era stato, dopo secoli, a infilarsi di nuovo nei vicoli con l’arte in mano? Un francese, si diceva. Poi il francese, cioè il pittore francese, ebbe un nome: Ernest Pignon-Ernest. Era lui che, di notte, armato di scala, secchio e “complici”, incollava sui palazzi quell’epidermide trompe-l’oeil: figure che sbucavano da una porta, o dallo zoccolo di un edificio, per ricordare argomenti che lì erano di casa: la carnalità della donna, il lungo corteggiamento tra la Morte e la Città. Residenti e passanti, il giorno dopo, trovavano la sorpresa. Poi iniziarono ad aspettarla, come si aspetta la calza della Befana o la visita di un parente.
È antico? Chiedeva un ragazzino, sgranando gli occhi davanti al “miracolo” apparso sotto casa. Accade nel video che il collettivo Sikozel coordinato da Luca Avanzini ha realizzato per celebrare le “nozze d’argento” con quello che fu un intervento alto di street art. Mimetico, effimero, tanto che oggi non ne resta più traccia (se non negli scatti di Alain Volut). Sì, è antico. Ed è per voi, sembrava dire Pignon. Ve lo regalo perché vi appartiene, è vostro. Riposateci accanto, abbiatene cura. Perché questi siete voi.
E allora viene da chiedersi cosa sia rimasto non delle carte, che il loro ineluttabile destino ha spellato e lavato via, ma dello spirito di quegli anni, di quell’aria più carica e pulita. Prima della Grande Umiliazione non smaltita, della delusione, dell’amarezza, dello sconforto.
Viene da chiedersi dove sia quel ragazzino dagli occhi sgranati, che si era fermato a guardare.
Viene da chiedersi se anche oggi i viventi di Ernest Pignon-Ernest si troverebbero a proprio agio, accolti e adottati come Mani, sacri ma tutto sommato di famiglia, da invitare alla tavola di tutti i giorni.
Viene da chiedersi se oggi, nella Partenope dei portoni chiusi, del graffito selvaggio, delle partite a pallone sui tetti delle chiese, di quell’antico che se ne va in polvere tra incuria e indifferenza (e questo no, non era ineluttabile), se in quel cuore ortogonale dove sotto la pelle scorticata non ne è spuntata una più fresca, ma una rogna che nessuno si prende più la briga di grattare, viene da chiedersi insomma se un’operazione d’amore come quella di Pignon sarebbe ancora possibile.
O forse è solo che avere vent’anni a Napoli, all’epoca, significava avere vent’anni più che da altre parti.
La memoria dei vicoli. Ernest Pignon-Ernest (r)incontra Napoli, venticinque anni dopo_ Napoli, Institut français Le Grenoble
(6 – 22 marzo 2014)
www.institutfrancais-napoli.com