Solmi: la parabola del potere

22 dicembre 2015
Federico Somi_ The great dictator_Veduta della mostra. Ph Danilo Donzelli

Federico Somi_ The great dictator_Veduta della mostra. Ph Danilo Donzelli

In principio fu Rocco Siffredi. Poi vennero King Kong, i Brangelina, la religione, la politica. Inevitabili le polemiche, perfino gli scandali. Sudati e meritati i riconoscimenti, le mostre internazionali, le conferenze in Accademie e Università prestigiose come Yale. Lui è Federico Solmi, bolognese di nascita e newyorchese di adozione, che dopo sei anni – l’ultima volta fu nel 2009, alla NOTgallery – torna in una città caotica, vitale (e per certi versi assurda) come i suoi video. Fino all’8 gennaio del prossimo anno, nello spazio del Lanificio dove Dino Morra ha trasferito la propria galleria, “andrà in onda” la trilogia “Chinese Democracy and the Last Day on Earth”: circa mezz’ora di vorticose animazioni aventi per oggetto il sogno delirante del Potere, la cui distorta utopia totalitaria finisce inevitabilmente col ritorcerglisi contro, in maniera deflagrante. Ne abbiamo parlato con l’artista.

Qual è stato il punto di partenza di questo lavoro?
Alcuni anni fa, quasi per caso, mi capitò di sfogliare a New York un libro sulle enormi, misteriose sculture dell’Isola di Pasqua, che sin da bambino mi avevano affascinato, e ho avuto modo di approfondirne la storia. Mai avrei immaginato cosa realmente era accaduto in quell’isola, oggi deserta ma un tempo un vero paradiso terrestre, ricchissima di ogni risorsa naturale. Lessi alcune informazioni sulla tragica fine degli abitanti dal libro dell’americano Jared Diamond, “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”. Rimasi molto sorpreso nell’apprendere come una civiltà così sofisticata avesse cessato di esistere perché aveva finito col distruggere le risorse naturali e l’ambiente dove viveva, tagliando tutte le foreste per innalzare sculture sempre più grandi a causa della rivalità tra le varie tribù e clan dell’isola, fino a rimanere senza scampo intrappolata in un’area completamente deserta a 3600 km dalle coste del Cile. La fine fu tragica: la popolazione disperata, senza cibo, optò per il cannibalismo poiché, non essendoci più alberi, non si potevano neppure costruire canoe e imbarcazioni per la pesca. Questa storia di incredibile ingenuità mi ha sconvolto, e mi ha fatto concludere che il pericolo maggiore per la razza umana siamo noi stessi, ed in particolare l’ipocrisia e la follia dei governi e dei leader politici che controllano la nostra società.

Che cosa è cambiato dal primo al terzo capitolo?
Ho incominciato a lavororare al primo capitolo, “A Song Of Tyranny”, nel 2011, ed ho completato l’ultimo episodio, “The Return of The Prodigal Son”, nel 2014. Nell’arco di tre anni sono cambiate tante cose, ho accumulato molta esperienza e ho fatto tanti eventi per me importanti, però il terzo ed ultimo video è il mio preferito. È stata una lunga e difficile e coraggiosa avventura, adesso però mi godo il momento: è un grande piacere per me poterli vedere uno accanto all’altro nella mostra di Napoli, e nella personale presso l’Haifa Museum of Art in Israele.

Rispetto ad opere come “Rocco never dies”, il tuo segno appare più maturo e anche più tragico. Questa evoluzione stilistica ha imposto un numero maggiore di collaborazioni? Com’è dirigere un team?
Naturalmente linguaggio e tecnica si sono molto evoluti rispetto alle opere del 2005, e chiaramente il numero di collaboratori ed assistenti è aumentato, ma diciamo che questo non ha molta importanza: quello che conta è fare nuovi progetti e confrontarsi con artisti sempre più bravi… e a New York queste sfide non mancano di certo. A volte è molto difficile lavorare con lo studio pieno di gente, però col mio tipo di ricerca non c’è alternativa: ho bisogno di modellatori 3D, video editor e assistenti. Però il momento più eccitante è la preparazione degli storyboard dei video: un processo molto intimo…

I dialoghi, molto semplici, sembrano ispirati ad un repertorio di luoghi comuni. Chi li scrive? C’è l’intenzione di fare il verso a un certo cinema “muscolare”?
Sono io a scrivere tutte le bozze, i dialoghi, la struttura delle scene, a costruire le bozze e creare i personaggi. Tuttora una delle mie fonti principali di ispirazione rimane il cinema muto, dove i dialoghi praticamente non esistono, se non per qualche frase che viene inserita all’interno della pellicola per aiutare lo spettatore a capire la trama del film. Amo Charlie Chaplin, Buster Keaton ma tantissimo anche il cinema espressionista tedesco di Rober Wiene, Fritz Lang, F. W. Murnau. Non mi pongo mai problemi con il cinema in generale, non mi considero un regista, ma semplicemente un artista che utilizza un linguaggio visivo per esprimere le proprie idee.

La tua è un’arte “politica”?
Non spetta a me decidere a quale categoria di arte appartengo, quello che posso dire è che sin dagli esordi desideravo creare opere che potessero interagire con il pubblico, spesso trattandando temi anche difficili, scomodi. Credo di esserci riuscito.

Gli americani hanno una grande ammirazione per l’Italia e per la sua storia, e per tutti i prodotti del Made in Italy. Certo anche qui si percepisce che il Paese sta attraversando una grande crisi, ma c’è da aggiungere che anche nei momenti migliori della nostra economia, a parte qualche piccolissima parentesi, l’arte contemporanea italiana non è certo la protagonista, o almeno quell’arte che si sta facendo oggi e non i soliti Fontana, Burri, Manzoni, Bonalumi, etc. Però non dobbiamo dimenticarci che neanche per loro, mentre erano in vita, è stato tutto rose e fiori. Io vado avanti per la mia strada… mi ritengo fortunato nel riuscire a fare tanti progetti, di certo le opportunità non mancano. Per il futuro sono molto ottimista e credo che gli anni più belli saranno quelli a venire…

(Articolo pubblicato sul Roma, 21 dicembre 2015)

nakai raymos_stacie@mailxu.com