Orlando Furioso – 500 anni

15 novembre 2016

“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori”: chi non conosce il più famoso chiasmo della letteratura italiana? Eppure in origine l’incipit dell’Orlando Furioso non era incrociato così: “Di donne e cavallier li antiqui amori” recitava infatti la prima edizione, datata 1516. Cinquecento anni dopo, la trafila ricorrenza-mostra-catalogo è di rigore. E per la mostra di Palazzo dei Diamanti, definita dai curatori Guido Beltramini e Adolfo Tura un’operazione di “filogia dell’immaginazione”, il volume sembra riprendere il policentrismo ariostesco, proponendo interventi dal taglio ora didascalico, ora più specialistico. Accanto ai problemi relativi alla composizione e alla pubblicazione del testo, il fulcro del progetto è “Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi” (e, aggiungeremmo, cosa sentiva quando apriva le orecchie): pertanto, non una riflessione sulla fortuna ex post del capolavoro cinquecentesco, quanto un’indagine sull’immaginario da cui l’autore avrebbe attinto, più o meno voracemente, il suo scintillante labirinto narrativo. “Dentro la mostra”, con dipinti, disegni, sculture, libri e manufatti che restituiscano il retaggio culturale del poema; “Dentro il Furioso”, per misurare l’orizzonte del poeta, restio, com’è noto, a viaggi che non fossero fantastici o letterari; e teso verso un’aurea mediocritas privata, pur snocciolando ottave per diletto ed encomio della corte estense. Per inciso, visti i legami familiari, all’epoca dire Ferrara significava (anche) guardare a Mantova: è proprio una lettera di Isabella a suo fratello, il cardinale Ippolito, a segnare l’“atto di nascita” dell’opera, nel 1507. La terza – e ultima – revisione vedrà il torchio nel 1532: in mezzo, uno dei periodi più tumultuosi della storia europea e sei canti in più; con l’aggiunta, tra l’altro, di un’ottava che celebra Leonardo, Mantegna, Giovanni Bellini, Dosso e Battista Dossi, Michelangelo, Sebastiano del Piombo, Raffaello e Tiziano. Frutto maturo di un genere e di una società al tramonto (del resto, era stato concepito come “gionta”, cioè prosecuzione, del poema incompleto di Boiardo), le intricate vicende dei paladini di Carlo Magno si nutrono di una serie di modelli non solo letterari, ma anche visivi, di cui i saggi cercano di dare conto: dalle carte geografiche al tema guerresco, frequentatissimo anche dalle cosiddette arti applicate. Resta tuttavia la sensazione che alcuni nodi cruciali dell’“Orlando”, quali la magia e la follia, non abbiano goduto di un approfondimento più corposo in merito ai precedenti iconografici. Del resto, se il desiderio è il motore dell’intreccio ariostesco, perché non seminare in catalogo la voglia di un’altra “inchiesta”?

(pubblicato su Artribune/Grandi Mostre anno VI n. 34)

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