Sbattere il mostro in prima pagina si può. Si deve. Nella mostra da Alfonso Artiaco (piazzetta Nilo, fino al 27 maggio) Thomas Hirschhorn conferma la sua propensione a rivelare urgenze scomode, argomentando il suo recente lavoro sulla pixelizzazione con una parte visiva ad alto impatto ed una teorica altrettanto incisiva. Nelle bacheche, accanto a scritti di suo pugno e al proprio “manifesto”, l’artista svizzero dissemina uno stimolante apparato bibliografico, dal Gramsci di “Odio gli indifferenti” alla Susan Sontag “Davanti al dolore degli altri”. Alle pareti, collage rivestiti di scotch e plastica, materiali caratteristici di uno stile che, se in passato ha inseguito il kitsch e l’horror vacui, stavolta si getta a precipizio verso l’inguardabile. Inguardabile perché è difficile sostenere la vista di corpi straziati, macerie, sangue, dolore. Inguardabile perché in più punti le immagini risultano sfocate o sgranate in quei “quadratini” tipici della grafica digitale.
Una manipolazione che costituisce il cuore di una riflessione non solo estetica, ma anche politica. Dal punto di vista formale, la pixelizzazione sembra dar conto di quanto, oggi, sopravviva dell’astrazione. Ancor più attuali, però, sono gli interrogativi etici che scaturiscono dal progetto: scegliere di rendere illeggibile una porzione di fotografia è un atto dalle implicazioni profondamente politiche, che sottende e determina un principio di autorità. Attraverso questa studiata selezione di verità nascoste, la censura esercita il proprio potere (e viceversa), ma ciò che viene oscurato riceve, quasi automaticamente, la patente di autenticità. Il fenomeno tocca dunque quella sorta di morboso vouyeurismo che il web ha eccitato all’inverosimile: quel che importa è spiare, supporre, dedurre, far sfoggio di “tuttologia”, senza preoccuparsi di verificare o di sapere. Sarà per questo che Hirschhorn, provocatoriamente, va perlopiù a camuffare proprio quelle situazioni che, al contrario, non susciterebbero orrore né raccapriccio, lasciando in primo piano inquadrature che sono un pugno nello stomaco.
“Behind facelessness” (questo il titolo dell’esposizione), “Dietro l’assenza del volto” c’è di più: l’ipocrisia di emittente e destinatario, la doppiezza di chi non vuol mostrare o non vuol vedere, trincerandosi dietro un’ipersensibilità di comodo; rigettando la quale l’artista difende, a prezzo di un’estrema crudezza, il proprio bisogno di vedere e di mostrare. Ma esibire corpi dilaniati è un balsamo o un detergente per l’umana pietà? Lo spettacolo della violenza può avere valore catartico oppure accelerare, per emulazione, la corsa verso il male? E qual è la dose giusta, laddove non necessaria, per generare interesse anziché saturazione? Domande semplici, risposte scontate – il problema non è nelle immagini in sé, quanto nell’occhio di chi le osserva -, destinate ad avvitarsi su se stesse. Quando tra il “mi piace” sotto un selfie e l’indignazione per il bambino martoriato c’è giusto il battito di ciglia di un clic, quando il flusso continuo di informazioni diventa un magma incontrollato, la nostra coscienza riesce a rimanere vigile? In un mondo votato all’iconoclastia emotiva, Hirschhorn esorta ad aggiornare il concetto di oscurantismo.
(Articolo pubblicato sul Roma, 10 maggio 2017)