Ma cos’è questa crisi? Per il secondo appuntamento del ciclo “Primo Mercato”, curato da Marcello Francolini presso lo Spazio Nea, Giuseppe Biguzzi affronta uno dei temi più caldi del Ventunesimo secolo inglobandolo nei motivi ricorrenti della sua ricerca. Il primo addentellato è quello clinico: secondo la medicina ippocratica il culmine di una malattia potrebbe coincidere con l’avvio del processo di guarigione, in quell’altalena di “crisi” e “lisi” che – ricorderanno i lettori di Svevo – rappresenta, in fondo, il cammino dell’esistenza. Tenendosi ancora dalle parti dell’antica Grecia, l’aggancio etimologico suggerisce come “crisi” derivi dal verbo “krino”, ovvero “separare”, ma anche “discernere” Così uno stato negativo può risolversi in un’opportunità, in un nuovo punto di partenza. Concetti che, in tempi recenti, alcuni economisti hanno tentato a fatica di imporre, e che l’artista trasferisce in maniera dilemmatica sul piano psicologico. “millenovecentoventinove” è il titolo della mostra, con una chiara allusione alla data in cui il crollo di Wall Street innescò la Grande Depressione. A ridosso diquegli anni, andava diffondendosi un nuovo tipo di bellezza femminile, magra, atletica, capelli corti: “la donna crisi” avversata dal Fascismo, che propugnava invece forme generose e rassicuranti. Accantonato l’elemento economico-politico – ma non quello sociale – Biguzzi dà alla depressione il nome e il corpo androgino e sfuggente di Romina. Nella traccia del disegno fermo, che contorna la pelle livida come a voler racchiudere una disgregazione interiore, dipinge ripetutamente la medesima figura acerba: ragazze-farfalla, fragili e accarezzate da abiti vivaci e senza pretese, che galleggiano su sfondi totalmente bianchi, astratti dalla realtà. Raggomitolate in un bozzolo autoprotettivo, rispecchiano – spiega il pittore – «una delle condizioni emotive generate dalla società contemporanea. Ho iniziato più di un decennio fa ad interessarmi di queste tematiche. Allora la crisi economica non era ancora arrivata, ma lo stato di decadenza già si respirava. Il mio lavoro è stato sicuramente influenzato da questa annunciata nuova condizione: la negazione dello sguardo, quindi del sé, la mancanza di comunicazione tra soggetto ed osservatore, la solitudine, la depressione, per arrivare ai sensi di colpa ed all’autocommiserazione delle ultime opere. Gli stati a cui mi riferisco sono sintomo, manifestazione, prodotto di una condizione imposta. “Millenovecentoventinove“ riporta quindi ad un periodo storico ma anche ad una condizione vissuta, ad un sentire sociale comune, ad uno stato emotivo che, a mio avviso, si manifesta di più nelle giovani generazioni ed in particolare nelle donne».
(Articolo pubblicato sul Roma, 22 luglio 2017)