Stanno arrivando. O meglio. Stanno tornando. Longobardi in Campania, mille anni dopo.
Chiusa la tappa pavese, al Museo Archeologico il comitato d’accoglienza per il “popolo che cambia la storia” è già all’opera per l’allestimento di una mostra cui hanno contribuito circa settanta prestatori, e che ha già registrato un’affluenza record in quella che fu la capitale del Regno fino alla caduta del re Desiderio per mano di Carlo Magno (ricordate l’Adelchi di Manzoni?). Sfondata infatti a Pavia la quota delle 54mila presenze, ben oltre il traguardo prefissato, ovvero la mostra sul Bergognone che, nel 1998, aveva chiuso con quasi 35mila biglietti staccati.
La trasferta napoletana (a partire dal 21 dicembre) dispiegherà il frutto di oltre quindici anni di ricerche in uno spazio emblematico del crogiuolo di culture che il Mezzogiorno dovette essere anche nei quasi cinquecento anni della “Langobardia minor”. Spazi più ampi delle Scuderie del Castello Visconteo, che hanno un po’ faticato a contenere i visitatori desiderosi di scoprire e ammirare gli splendidi ori, le monete, le sculture, i codici, gli scheletri e altri documenti relativi ad una civiltà che, nel Medioevo, si spartì con i Bizantini una Penisola squassata dalla caduta di Roma e dall’ondata di invasioni successive. E che – a dispetto di politicanti novelli storiografi – nel Meridione ebbe vita più longeva, se è vero che solo dopo il Mille i Longobardi cedettero ai nuovi dominatori normanni.
Da un certo punto di vista, potrebbere sembrare la solita storia di una terra colonizzata e popolata a macchia di leopardo da forestieri, per giunta non sempre legati da rapporti di buon vicinato. Li testimonia, ad esempio, la lapide del gastaldo Ausenzio, incaricato dal principe Sicardo di difendere il castello di Nola dalle scorrerie dei Napoletani, chiamati “Romani” in quanto sudditi dell’Impero d’Oriente (se si osservano le cartine, solo la costa ai piedi del Vesuvio, il “tacco” e la “punta” dello Stivale rimasero bizantini, estranei all’espansione di ducati e principati); bello e valoroso, l’aristocratico perì a 37 anni, dopo aver ingaggiato un eroico combattimento contro una banda di “latrunculi Parthenopenses”. Però, neppure tra loro i Longobardi del Sud andavano troppo d’accordo, visto che, ad un certo punto, ebbero non una ma ben tre capitali: Benevento, Capua e Salerno, mete imprescindibili nel circuito espositivo che avrà come capofila il Mann. Un Tour della regione, dunque, all’interno di un progetto scientifico rigoroso ma flessibile, che ha ampliato gli orizzonti mettendo in rilievo i debiti, le mescolanze, le convivenze, evidenti tanto al Nord (ad esempio, con i “matrimoni misti” tra Franchi e Longobardi nelle zone di confine) quanto al Sud.
Da Pavia, torneranno a casa le ceramiche del complesso di San Lorenzo Maggiore, prodotte in Africa settentrionale, o quelle del santuario di Santa Restituta a Lacco Ameno, impareggiabili per varietà e qualità produttiva; l’epitaffio sepolcrale del comes Petrus, membro dell’ordine senatorio, proveniente da San Prisco; gli ori di Senise (Potenza), undici manufatti risalenti alla seconda metà del VII secolo, in cui si riconoscono tanto “mani” bizantine quanto longobarde, custoditi nei forzieri del Museo di piazza Cavour; i marmi dalla chiesa di San Felice a Cimitile.
Finita qui? No: nella primavera del prossimo anno, la mostra andrà in viaggio a San Pietroburgo. Non per parlare di Nord o di Sud, ma di una storia che ci fa riflettere su ciò che ci unisce, piuttosto che dividerci.
(Articolo pubblicato sul Roma, 13 dicembre 2017)