Le voci di dentro. Sono quelle delle “Moltitudini” che, per il terzo anno di seguito, Antonio Biasiucci fa rivivere nell’Archivio Storico del Banco di Napoli.
È ormai assodato come luoghi del genere si prestino ad ispirare ed accogliere progetti di forte impatto: basti pensare che una delle installazioni più ammirate dell’attuale Manifesta è stata quella realizzata dai Masbedo all’Archivio di Stato di Palermo. Ed è ormai da tempo che a Napoli si investe – oltre che su quelle scientifiche – sulle potenzialità “artistiche” delle 330 stanze di via dei Tribunali, che ospitano la più imponente raccolta archivistica di documentazione bancaria esistente al mondo, relativa agli otto istituti di credito attivi in città nei secoli passati. Libri maggiori, giornali copiapolizze, filze e pandette che restituiscono un mirabile affresco sulle vicende partenopee e del Mezzogiorno a partire dal 1500, disseminati in un labirinto odoroso di polvere e carta vecchia nel quale, se l’immaginazione si pone in ascolto, sussurri e grida remote accompagnano studiosi e visitatori. Tra questi ottanta chilometri di scaffalature, respirano ancora 17 milioni di vite: artisti, mercanti, nobili, re, ma soprattutto persone comuni.
Sono i “Molti” che avevano già suscitato l’interesse di Biasiucci in una serie del 2009, mentre appartengono ad un ciclo del 2015 gli scatti di “Codex” che si confrontavano proprio con gli enormi faldoni del Banco di Napoli, scelti e messi in posa per le particolari iscrizioni tracciate sul taglio: una firma particolarmente originale e fiorita, un segno “esoterico” lasciato dal “giornalista” compilatore, o la capacità di perdere i connotati originari per assomigliare ad altro, ad esempio un piedistallo o un’epigrafe.
Con una modalità abituale, il fotografo di Dragoni rielabora opere precedenti, rimescolandole e dando loro nuova linfa, come fossero tasselli di un unico grande progetto in progress, che ruota intorno alla sostanza della fotografia e alle capacità di trasmutazione della materia. Pochi e ruvidi sono infatti gli oggetti immortalati, ma perenne è il loro divenire: crani, pani, volti, vacche e pieghe della terra, attraversati dall’incessante passaggio verso un “altro” visivo e semantico.
Immagini migranti e atemporali, che affiorano nel buio del Salone dell’Archivio: come attori, arrivano per un momento sotto i riflettori, raccontano qualcosa, spariscono, ritornano. E il brusio dei monologhi diventa un coro indistinto, in un lavoro intensamente teatrale anche per l’uso “drammatico” della luce (retaggio dell’intenso sodalizio con l’attore e regista Antonio Neiwiller). Lentamente, le “Moltitudini” risalgono dalle acque torbide (o dalla camera oscura) della memoria, disponendosi, come gemme sul velluto di un gioielliere, ad illuminare le monumentali cataste di pagine, dove la luce pare fissarsi su una parola in particolare: Pietà. Che è sì il nome di uno degli antichi Banchi, ma riflette anche lo sguardo empatico dell’artista, il quale riscrive e aggiorna continuamente il cammino dell’umanità in questo intreccio di transiti.
L’esito non è un libro dei morti, perché tra queste carte la vita è ancora pulsante e il denaro come motore della Storia riesce perfino ad assumere una valenza meno brutale. Un diaframma che appartiene profondamente a Napoli, città “purgatoriale” dove la morte non è mai morte, ma appare sempre come qualcosa di sospeso, blandamente definitivo, che non si rassegna a perdere voce, corpo, contatto.
(Articolo pubblicato su Artslife, 29 luglio 2018)