Statue. Sculture. Statue. D’altro canto, Aron Demetz non aveva altra strada davanti a sé. Così s’è presentato al Mann restando fedele a se stesso e al proprio mestiere; e, nel museo ipertrofico, ha intercalato a quelli preesistenti altri “oggetti” plastici, osando misurarsi con la grandiosità degli antichi perfino sulle dimensioni. Ne è un esempio la “Großer Kopf” di legno di cedro che, pur rivaleggiando con le colossali “capocce” imperiali, se ne differenzia soprattutto per due caratteristiche: una, la più immediata, è l’intenso profumo, di contro alla percezione olfattivamente “neutra” dei marmi circostanti; l’altra è il procedere nella materia, antitetico rispetto a quello della scultura classica, poiché, laddove quest’ultima sceglieva di levigare e definire soprattutto la parte anteriore, l’artista altoatesino lascia a vista proprio il processo di lavorazione del volto, offrendone al pubblico le parti grezze e più “tormentate”, bilanciate però da un’espressione atarassica.
Si potrebbe dunque proseguire il racconto di questa personale assumendo come punti di riferimento un pugno di opere, tra le più emblematiche di quel confronto tra passato e presente che tutti gli artisti in transito all’Archeologico devono affrontare e in qualche modo gestire. Il modo in cui Demetz risolve è innanzitutto quello della techné, dispiegata – come indica il testo di presentazione – “in una dimensione di ascolto nei confronti del materiale che vuole plasmare”, sia esso legno, gesso, vetro, bronzo o argilla. Il segno, l’impronta, la traccia del lavoro è sempre a pelle, impressa con gesto deciso o velocemente “sfogliata” in trucioli.
Una “disparità di trattamento” evidente in modo particolare nello spazio più ostico e difficile della mostra: l’immenso salone in cui stanno affrontati il Toro e l’Ercole Farnese. Proprio alle spalle di quest’ultimo, Demetz sistema un gruppo di sculture in tiglio. Ancora una volta, la collocazione/ contrapposizione accentua lo squilibrio e la distanza rispetto all’antico: uno contro molti; legno contro marmo; immobilità contro tensione; anatomie velocemente abbozzate contro masse muscolari imponenti. Pose rigide, come nella scultura arcaica, che però ambiscono a rivendicare il proprio dinamismo nel “non finito” continuamente intrecciato a superfici lisciate con cura.
Una fissità ora composta ora nervosa, come quella che plasma o scheggia corpi sottili, da efebi o mummie, ritti con orgoglio sui loro piedistalli. A far da campione, si prestano allora i lavori posti in uno dei luoghi forse più “sacrificati” dell’intero complesso di Piazza Cavour, pur essendo una tappa obbligata per i visitatori delle altre esposizioni al pianterreno e ben visibile dall’atrio. Demetz lo occupa per intero, dando un piccolo saggio della propria capacità di rappresentare l’uomo (e l’idea di questo) attraverso soluzioni che, nella loro varietà, concorrono a dar ragione all’“Autarchia” della materia.
Già in passato, tale sorta di “autosufficienza” dialogante aveva suggerito all’artista “L’attimo fuggente”, le cui figure in legno carbonizzato rinviano direttamente ai calchi di Pompei e alla tragedia dell’eruzione del 79 d. C. Un ritorno a casa, dunque, perfettamente calzante, ma – a voler proprio fare i pedanti – forse un po’ didascalico.
(Articolo pubblicato su Artslife, 27 luglio 2018)