D’ambra, di miele, di fuoco. È questa la luce che, pagina dopo pagina, svela la Tazza Farnese, il più grande vaso inciso del mondo antico. Frutto della collaborazione tra l’archeologa Valeria Sampaolo e il fotografo Luigi Spina, la monografia (5 Continents) affianca all’itinerario per immagini non solo la complessa – e ancora controversa – analisi iconografica del manufatto, ma accompagna i lettori in una storia prestigiosa e alquanto movimentata: realizzato in età ellenistica, probabilmente appartenuto all’imperatore Augusto, questo straordinario oggetto rituale nel Medioevo viaggiò più volte tra l’Oriente e l’Italia (fu “avvistato” anche nel tesoro di Federico II di Svevia), dove tornò dopo la caduta di Costantinopoli, passando dalla corte aragonese di Napoli alle collezioni papali. Da qui, la “scodella” giunse nelle mani di Lorenzo il Magnifico; a metà del Cinquecento si mosse da Firenze insieme a Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici e sposa in seconde nozze di Ottavio Farnese. L’ultimo, e definitivo, spostamento nel Settecento, quando Carlo III, re di Napoli e (poi) di Spagna, trasferì sul suolo partenopeo l’imponente raccolta di capolavori ereditati dalla madre Elisabetta Farnese.
Donata, venduta, ereditata, la Tazza dunque trovò requie e casa in una città dove aveva già “vissuto”, luogo esso stesso testimone di quelle sedimentazioni cosmopolite che, come gli strati lavorati (e su entrambi i lati!) con mirabile perizia dall’ignoto artigiano alessandrino, sembrano riflettersi nei continui “sballottamenti” di una delle attrazioni dell’Archeologico Nazionale di Napoli. Il Museo per antonomasia che, proprio alle spalle del colossale Ercole Farnese, riserva una serie di stanze alle antiche chicche della glittica: gemme e pietre, anche piccolissime, incise con arte squisita.
Regina della sezione, con i suoi 21 cm di diametro, questa phiale dal soggetto – politico o esoterico? – non ancora del tutto precisato, che Sampaolo tenta di chiarire ricapitolando le ipotesi finora formulate. E quello relativo all’interpretazione della scena interna non è l’unico dei problemi che la Tazza continua a porre, a partire dalla sua stessa denominazione: taluni infatti preferiscono definire cammeo questo piatto per libagioni in agata sardonica che, a differenza di molti altri reperti, non è frutto di scavi, ma ha attraversato i secoli alla luce del sole e… più o meno indenne: dapprima furono i gioiellieri medicei a praticare un buco nella testa della Gorgone, per fissarvi un piede; poi, nel 1925, fu la volta di un custode del museo napoletano che, in una notte di follia, spaccò a ombrellate la bacheca, provocando danni prontamente riparati. A quel primo restauro seguì un altro nel Dopoguerra, reso necessario dal distacco delle parti incollate vent’anni prima, a causa dell’umidità.
“Ferite” provocate più dall’uomo che dal tempo, accarezzate con grazia dall’obiettivo di Spina, veterano e profondo conoscitore del Mann e dell’archeologia campana che, per l’occasione editoriale, sostituisce l’abituale bianco e nero con una luce fulva, solare, esaltando le trasparenze perlacee dei rilievi e le note ignee della sardonica. Quasi sulla scorta dell’artifex originario, il fotografo s’immerge tra superficie e profondità, tra le curve voluttuose della ricca chioma sul retro, o i diversi spessori dell’intaglio. Cercando, più che di emulare il virtuosismo degli antichi, di catturarne per puro piacere la scintilla di tanta lussuosa bellezza.
(Articolo pubblicato su Artribune il 20 settembre 2018)