Mi chiedo (e per fortuna non sono l’unica) come abbiano potuto gli “intellettuali” scelti da Sgarbi per selezionare i 200 partecipanti alla Biennale prestarsi ad una simile pagliacciata. Patriottismo? Vanità? Candore? Superficialità? Voglia di esserci, di divertirsi? Come se una delle più importanti kermesse d’arte contemporanea al mondo fosse un risiko per dame annoiate. Come se questi “indicatori” avessero bisogno di notorietà. Come se non fossero note l’intemperanza e l’inaffidabilità del regista di questo teatrino lagunare. Uno che, tra una comparsata in tv e l’altra, chissà dove trovava il tempo per fare il sindaco, il (mancato) soprintendente e, appunto, il curatore di mostre. Comunque fa tristezza scorrere la lista degli “intellettuali”, perché automaticamente porta dritti dritti al qualunquismo di terz’ordine. C’è di tutto: storici dell’arte, sociologi, giornalisti, scenografi, registi, musicisti, filosofi… pure il mio cantante e il mio scrittore preferiti. E soprattutto tanta, tanta gente notoriamente di sinistra (perché, si sa, gli intellettuali di destra non esistono), che magari aveva tuonato contro Sgarbi e contro il regimetto di cui lo stesso costituisce un fulgido esempio, deplorando i maitre à penser senza la “schiena dritta”, accusando i conniventi. Che delusione… Ma, mi domando: l’avevano visto, prima, il progetto? Come pensavano che potesse funzionare un accrocco di centinaia di individui? Ma hanno presente gli spazi del nostro Padiglione alla Biennale? No che non ce li hanno, se poi pensano di piazzare le opere sui gommoni. E quanto sapevano, i suddetti “intellettuali”, relativamente a tempi e modalità di realizzazione della mostra? Quali garanzie hanno preteso, prima di legare il proprio nome ad un’operazione segnata da tutte le italiche virtù (approssimazione, familismo….) ? Non si sentono un po’, un pochino in colpa per essersi prestati a questo remake dei Raccomandati senza Pupo ed Emanuele Filiberto?
E c’è pure un’altra questione che non capisco, relativa ai criteri di scelta dei partecipanti ai padiglioni “delocalizzati”. Chi ha deciso quanti dovessero essere per ciascuna regione? Quale sistema è stato adottato? Maggioritario, proporzionale, uninominale secco, con sbarramento al 4%, con mattarellum, tatarellum o porcellum? Anche questo non è stato chiarito. L’unica cosa che ci ritroviamo in mano è un brogliaccio zeppo di nomi, tra famosi, ex famosi e sconosciuti. Alcuni dei quali, a detta loro, si sono scoperti inconsapevolmente catapultati tanto nelle mostre decentrate quanto nel famigerato “fondo” (non quello che abbiamo toccato da un pezzo, eh, ma una specie di “riserva aurea” sbandierata dal criticone); altri invece, contattati per un primo “abboccamento” senza alcun seguito, ora si trovano con un pugno di giorni davanti – ma guai a sapere quanti! – per realizzare un’opera da esporre in spazi naturalmente ancora impreparati (e chissà quanto adeguati). E molti, in ogni caso, confessano il proprio imbarazzo in merito alla decisione da prendere circa la propria partecipazione. Fa tristezza essere arrivati a un punto di scoramento tale da pensare che, alla fine, tanti si caleranno le braghe e, per motivi giustificati e comprensibili, da “indecisi” si troveranno nel gruppo dei “responsabili” e fors’anche dei “beneficiati”. Certo, magari presenteranno un’opera “contro”, polemizzeranno con gli stessi meccanismi che li hanno eletti, però dispiace lo stesso, anche perché mai come in questo caso uno i compagni di banco se li può scegliere. E, a proposito di linguaggi settoriali, chissà che differenza ci sarà tra l’organico “di diritto” (quello cioè della playlist sgarbiana) e quello “di fatto”, ovvero il numero effettivo dei partecipanti. Perché, se è vero che la donna è mobile, Littorio da Ferrara lo è ancora di più.
Che dire, alla fine di quest’altra tumultuosa giornata? Un tempo di “organico” c’era l’intellettuale. Guardate ora cosa c’è rimasto.