Signora Pietà

13 maggio 2011

Pietà Rondanini_ Milano_ Raccolte d'Arte Antica-Museo d'Arte Antica e Pinacoteca del CastelloPassato un Michelangelo, se ne fa un altro. Si è conclusa da poco la mostra sulle architetture buonarrotiane al Castello Sforzesco, ma in loco ne continua un’altra sul genio di Caprese. Stavolta protagonista è la Pietà Rondanini, tra le principali attrazioni del complesso meneghino, attorniata da lettere, disegni autografi, poesie e opere di emuli ed epigoni (che non fanno altro che sottolineare ancor di più l’inarrivabile altezza del Maestro). Centrale e riparata da una specie di tribunetta-scrigno la collocazione della “star”, quasi a risarcire i visitatori di un percorso labirintico e fioco, che rende talvolta difficile la lettura dei documenti originali.

Temi ricorrenti quelli del Compianto e della Crocifissione. Malinconia senile? Incombenza della morte? Ossequio ai dettami religiosi coevi? Proviamo ad analizzare il capolavoro, partendo innanzitutto dalla cronologia: la datazione ne pone l’inizio nel 1552-53, collocando nel 1555 una ripresa protrattasi fino alla morte. Dunque, una statua abbozzata mentre il Concilio era in corso di svolgimento e terminata nel 1564, ad assemblea chiusa da un anno. Ma sarebbe una distorsione ideologica ravvisare nel marmo un manifesto della “riaffermata” dottrina cattolica, nei confronti della quale Michelangelo aveva maturato riflessioni inquiete, problematiche. Normale, per uno spirito in costante conatus come il suo, gettato in un’epoca lacerata dallo scisma luterano, da continue guerre e dall’asfissiante ortodossia tridentina. Per stimolare, condividere e guidare questo anelito all’elevazione interiore decisiva si rivela Vittoria Colonna, marchesa di Pescara e moglie di Ferrante d’Avalos, che solo il lignaggio salva da un probabile intervento dell’Inquisizione, accanitasi invece contro alcuni dei suoi sodali, affascinati dal pensiero di Juan de Valdés.

Ed “eretico” Michelangelo si dimostra nell’arte. Lui che aveva fondato il Rinascimento e ispirato la Maniera, spezza il dogma della forma, in cui pure eccelleva, e crea qualcosa che nessuno per secoli osò “imitare”: il non finito. Certo, la Pietà Rondanini rimane incompiuta per sopraggiunti limiti d’età, ma… può per questo dirsi “incompleta”? Il suo messaggio non è, forse, dolorosamente lampante? Due figure fuse l’una nell’altra, che si struggono come ceri. Le ginocchia che si spezzano, il peso dei corpi squilibrato, strappato dalla continua tensione alto/basso. Non c’è bisogno di esasperare espressioni e gesti perché il pathos si manifesti. Il dolore della madre, costretta a tenere fra le braccia il proprio figlio morto, implode nella pietra chiusa e severa. Granitica come un pilastro, mentre il figlio le scivola tra le braccia: forza insospettabile e smisurata delle mamme. O è piuttosto il figlio, baluardo precario, ad offrire sostegno alla madre?

Mistero divino.

Monumentale, potente.

Senza enfasi: basta la sintesi.

Divino mistero anche questo.

Ma la Pietà Rondanini è anche, oltre che un’opera filosofica rispondente a un preciso dettato intellettuale ed intimo, un’opera fisica, che racconta l’ultima sfida dell’uomo contro una materia che per tutta la vita aveva dominato, estraendone l’anima. E, se è vero, come scrive Vasari, che il Buonarroti vi lavorò fino alla morte – consumando come sua abitudine notti insonni, al lume di una candela che, per comodità, fissava sopra una specie di celata di cartone – , fa un po’ tenerezza leggere le lettere di Michelangelo al nipote Leonardo, dove tra le righe del suo carattere temperamentoso (“non sono un pucto”, protesta con il nipote, preoccupato forse più dell’eredità che della salute dell’illustre zio: un quadretto degno delle migliori famiglie…[1]) sfuggono lamentele sugli acciacchi dell’età. Ma poi l’ottuagenario “dilombato, crepato, infranto e rotto[2], che per il “mal della pietra” ha difficoltà ad “orinare[3], impugna i ferri del mestiere e attende all’impresa. Ancora una volta tormentata. A scorrere le Rime di quegli anni, insistenti si fanno concetti come peccato, contrizione, espiazione, morte, perdono.

Che cos’è, dunque, la Pietà Rondanini? Un testamento spirituale? Un’impetrazione di grazia? Un dialogo privatissimo tra l’Uomo e Dio? Non è così poi difficile indovinare cosa passi per la testa di un uomo al crepuscolo dei suoi giorni…

C’è però un’ultima considerazione da fare. Ed ha a che fare con l’arte: la quale ha minato Michelangelo nel fisico e, a quanto pare, non è riuscita a risolvere definitivamente la straziante antinomia tra materia e spirito, tra finito e Assoluto: “Più l’alma acquista ove più ‘l mondo perde; / l’arte e la morte non va bene insieme:/ che convien più che di me dunche speri?[4].

Cosa vorranno dire questi versi? Il genio sta forse ripudiando il “lavoro” che gli ha garantito fama e denaro? E allora perché, vecchio e malconcio com’è, si è messo a scolpire – per se stesso, non per un illustre e facoltoso committente – una statua di marmo? Noi contemporanei, con un certo gretto pragmatismo, aggiungeremmo: chi glielo fa fare? Perché uno all’apice della carriera, venerato come Dio in terra, non si rilassa, godendosi beato il successo? Perché continua a faticare?

Probabilmente perché non può farne a meno.

Sicché la Pietà Rondanini, prova titanica, si staglia solitaria quale atto di estrema umiltà e sottomissione. Verso Dio, verso l’arte.

L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla Pietà Rondanini_ Milano_ Castello Sforzesco

a cura di Alessandro Rovetta

(24 marzo / 19 giugno 2011)

 

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[1] Lionardo, vego per le tua lectere che tu presti fede a certi invidiosi e tr[i]sti che, non possendo maneggiarmi né rubarmi, ti scrivono molte bugie. Sono una brigata di g[h]ioctoni e se’ sì sciocho, che tu presti lor fede de’ casi mia come s’io fussi un pucto. Levategli dinanzi chome scandolosi, invidiosi e tristamente vissuti. Circa il patir del governo, che tu mi scrivi, e d’altro, quanto al governo ti dico che io non potrei star meglio, né più fedelmente esser in ogni cosa governato e tractato; circa l’esser rubato, di che credo voglia dire, ti dico che ò in casa gente che me ne posso dare pace e fidarmene. Però actendi a vivere e non pensare a’ casi mia, perché io mi so guardare, bisogniando, e non sono un pucto. Sta’ sano.Di Roma, a dì 21 d’agosto 1563.Michelagniolo.A Lionardo di Buonarrota Simoni in Firenze. (lettera di Michelangelo al nipote Leonardo)

[2] I’ sto rinchiuso come la midolla / da la sua scorza, qua pover e solo, / come spirto legato in un’ampolla: / e la mia scura tomba è picciol volo,/ dov’è Aragn’ e mill’opre e lavoranti, / e fan di lor filando fusaiuolo. / D’intorn’a l’uscio ho mete di giganti, / ché chi mangi’uva o ha presa medicina / non vanno altrove a cacar tutti quanti. / I’ ho ‘mparato a conoscer l’orina / e la cannella ond’esce, per quei fessi / che ‘nanzi dì mi chiamon la mattina./ Gatti, carogne, canterelli o cessi, / chi n’ha per masserizi’ o men vïaggio / non vien a vicitarmi mai senz’essi. / L’anima mia dal corpo ha tal vantaggio, / che se stasat’ allentasse l’odore, / seco non la terre’ ‘l pan e ‘l formaggio. / La toss’ e ‘l freddo il tien sol che non more; / se la non esce per l’uscio di sotto, / per bocca il fiato a pen’ uscir può fore. / Dilombato, crepato, infranto e rotto / son già per le fatiche, e l’osteria / è morte, dov’io viv’ e mangio a scotto. / La mia allegrezz’ è la maninconia, / e ‘l mio riposo son questi disagi: / che chi cerca il malanno, Dio gliel dia. / Chi mi vedess’ a la festa de’ Magi / sarebbe buono; e più, se la mia casa / vedessi qua fra sì ricchi palagi. / Fiamma d’amor nel cor non m’è rimasa; / se ‘l maggior caccia sempre il minor duolo, / di penne l’alma ho ben tarpata e rasa. / Io tengo un calabron in un orciuolo, / in un sacco di cuoio ossa e capresti, / tre pilole di pece in un bocciuolo. / Gli occhi di biffa macinati e pesti, / i denti come tasti di stormento / c’al moto lor la voce suoni e resti. / La faccia mia ha forma di spavento; / i panni da cacciar, senz’altro telo, / dal seme senza pioggia i corbi al vento. / Mi cova in un orecchio un ragnatelo, / ne l’altro canta un grillo tutta notte; / né dormo e russ’ al catarroso anelo. / Amor, le muse e le fiorite grotte, / mie scombiccheri, a’ cemboli, a’ cartocci / agli osti, a’ cessi, a’ chiassi son condotte. / Che giova voler far tanti bambocci, / se m’han condotto al fin, come colui / che passò ‘l mar e poi affogò ne’ mocci? / L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui / di tant’opinïon, mi rec’a questo, / povero, vecchio e servo in forz’altrui, ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto. (Michelangelo, Rime, 267)

[3] Lionardo, io ò ricievuto la rascia e l’ermisi[no], e come truovo chi la porti, la manderò e subito mi manderà i danari. Del resto de’ danari m’aviserai quando n’arai facto quello che io ti scrissi. Circa l’esser mio, io sto male della persona, cioè con tucti i mali che sogliono avere i vechi della pietra, che non posso orinare, del fianco, della schiena, in modo che spesso da me non posso salir la scala; e peggio è perché son di passione pieno perché lasciando le comodità che io ò qui a’ mia mali, non ò a viver tre dì; e non vorrei perder per questo la gratia del Duca, né vorrei manchar qua alla fabrica di Santo Pietro, né mancare a me stesso. Prego Dio che m’aiuti e consigli e se mi venissi male, cio[è] febre di pericolo, subito manderei per te. Ma non ci pensare e non ti mectere a venire, se non ài mia lectere che tu venga. Rachomandami a messer Giorgio, che mi può giovare asai, se vuole, perché so che ‘l Duca gli vuol bene.A dì sedici di g[i]ugnio 1557.Michelagnio[lo] Buonarroti in Roma.A Lionardo di Buonarroto Simoni in Firenze. (lettera di Michelangelo al nipote Leonardo)

[4] Michelangelo, Rime, 283.


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