Da un po’ di tempo, andando in giro per regge e palazzi reali, incappo puntualmente nella stessa tappa obbligata: la visita delle cucine. Ora, a parte che mi dà un po’ fastidio essere menata nei luoghi della servitù, tra fantasmi di sguattere sudate e valletti isterici, ma il dato comune è la standardizzazione degli allestimenti. Premesso che gli ambienti sono invariabilmente impregnati di un’umidità oscillante tra l’80 e il 99%, che la temperatura collassa intorno allo zero anche se è ferragosto e che l’odore non è proprio quello di una torta di mele appena sfornata, quello che impressiona è che ritrovi ovunque gli stessi arredi: pentole brune e padelle annerite[1], piatti impolverati nei lavabi dalle cannelle arrugginite… Per non parlare delle mummie ittiche, dei quarti di bue d’après Rembrandt, del pollo di plastica crudelmente infilzato sul girarrosto, delle pannocchie di granturco e delle mele idem in plastica adagiate su pagliericci grigiastri… Va forte anche la selvaggina: lepri e fagiani imbalsamati appesi a testa in giù, o addirittura un mastodontico e irsuto cinghiale arrovesciato su un ceppo. Non va meglio nel settore panetteria & pasticceria: michette che solo la muffa distingue da un’opera di Manzoni (Piero) e l’onnipresente stampo da budino in rame. E le cantine? Meglio non parlarne. Anche perché sarebbe difficile parlare mentre si battono i denti davanti a due- tre grappoletti (di plastica anche quelli, naturalmente) e a un torchio abbandonato.
Non capisco perché si sia diffusa questa perniciosa tendenza a deportare i visitatori nei bassifondi, anche perché di un posto abitato da teste coronate uno ammira soprattutto: le alcove cortinate, i parati in seta, i secrétaire intarsiati di madreperla, le chicchere di porcellana, i centrotavola trionfanti, gli specchi grandi quanto un monolocale, le sale da ballo vaste come un appartamento, i pavimenti marmorei, i soffitti alti sette metri, i cabinets de toilette leziosi, le cornici e gli stucchi dorati, i muri affrescati, i mobili lavorati dai migliori ebanisti, le sovrapporte decorate, le tende di velluto, i giardini rigogliosi e curatissimi con statue, fontane e rarità botaniche.
Perché dunque condurci nelle ime stanze, dove i padroni di casa non si degnavano mai di scendere? Perché rompere l’incantesimo? Per farci poi provare un fremito d’indignazione al pensiero dei nobili che s’abboffavano a spese della povera gente? Purtroppo, l’unica immagine che ci viene in mente è quella del cuoco dalla faccia rubizza che palpeggia il culo della cameriera sotto le sottane.
In alto: Bernardo Strozzi_ La cuoca _ Galleria nazionale di Palazzo Rosso, Genova
[1] Non so a voi, ma a me fa ribrezzo pensare che ci abbiano cucinato dentro… ah, quel bell’acciaio tirato a specchio con la paglietta!!
ahahahah! perche? è un restauro poco costoso e facile da allestire. con la scusa di ‘far rivivere l’ambiente delle cucine dove ferveva il lavoro di cuochi e laveurs’ si fa finta di recuperare parti del patrimonio trascurando urgenti restauri strutturali e recupero di opere preziose.