Cilicio, calvario ed espiazione

24 luglio 2007

biennale_opinioni

Un debutto in pompe funebri più che in pompa magna. Robert vo’ fa l’americano, e ai blocchi di
partenza si blocca sui blocchi. Usa – Urss. Ancora loro…

 

Chi siamo? Dove andiamo? Sembra chiedere, nero su bianco, il grande punto interrogativo sui palloncini di Hiroraren (memento) Mori. Non vi arrovellate, risponde la mostra del curatore, perché, cristiani o musulmani, atei o jainisti, pittori o videomaker, una cosa è certa: finiremo tutti quanti là. Naturalmente, una volta abbandonata la valle di lacrime che Storr ci ricorda con trappista implacabilità, alla faccia di un titolo che ai più superficiali tra gli spiriti, fuorviati dalla parola sensi, lasciava già pregustare colte e squisite mollezze da Decadenza. L’evidenza è invece un cingolato cigolante che, tra soluzioni déjà vu e approcci datati, procede nell’Arsenale (militare) su uno sterrato dissestato e spesso inutilmente tortuoso. A partire dall’eccessiva durata di alcuni video, punitiva e irrispettosa tanto per il pubblico – oggettivamente impossibilitato a trascorrere la maggior parte della giornata di fronte a filmati lunghi fino a 90’-, quanto per gli artisti, condannati ad essere “fruiti” in modo parziale e approssimativo. Ancor più ridondante è l’atmosfera engagé (e spiccatamente bellicista) che, non senza punte di stucchevole retorica, aleggia come una cupa nuvolaglia, resa ancor più soffocante dall’abbassamento della cortina di ferro. Riesumando la mummia (?) della contrapposizione Usa – Urss, infatti, l’epicedio dell’imper (ialism)o che fu tira fuori dalla naftalina l’astrakan tarlato di un’ideologia revisionata e sbugiardata, preferendo ai soliti kamikaze il grande balzo all’indietro in grembo al Satana falcemartellato e avvodkato, tutto sommato più “gestibile” di un manipolo di fanatici religiosamente astemi. All’ostensione del cadavre exquis si dedicano Dimitri Gutov e “frate mitra” Nedko Solakov , e profuma di rivoluzione e costruttivismo -ma con che classe!- il teatrino architettonico della premiata coppia Kabakov (questa sì che è avanguardia, caro neo-para-post futurista Buvoli…).

Naturalmente, poiché le disgrazie non finiscono mai, tra guerre fredde e guerre calde (o riscaldate), sbucano geremiadi femministe, muri del pianto israelopalestinesi, promemoria per l’Aids e tutte le piaghe di quel Continente Nero cui è affidato, tramite lo spettacolare artigianato di El Anatsui, il compito di vivacizzare tanta gravezza, impresa tentata anche dal bazar dell’“illuminato” Jason Rhoades o dai “gelatoni” fragola e pistacchio di Franz West. Un social forum facile facile, ma fuori tema. Perché, se è consuetudine formulare tracce biennalesche ambiguamente onnicomprensive, discutibile è congegnare l’evento di punta come un format da tivvù generalista (sebbene i lustrini non manchino, vero Filomeno?). Coi “sensi” debolmente vellicati e un “senso” sfuggente. Di sensazionalismo, invece, c’è più d’un abbozzo. Tuttavia, è impensabile che i macabri palleggi di Canevari possano scioccare qualcuno, avendo la cronaca (i militari tedeschi in Afghanistan) abbondantemente superato la fantasia (e dunque l’arte). Analogamente, nessuno trasalirà davanti al Cristo crocifisso sulla fusoliera dal venerando Leòn Ferrari o ai filmini di Alterazioni Video.

Insomma, fragile invenzione, farraginosità e incoerenze, esasperate in uno scompaginato Padiglione Italia dove trionfano accostamenti inopinati e scelte imprudenti, tali da avvilire anche grandi come Anselmo e Richter, o la veterana Louise Bourgeois col suo insipido (Harry) Truman show. Unico trait d’union con l’Arsenale, il concept truce e luttuoso. Orba di uno sguardo unitario, la processione si snoda mesta dall’albero degli impiccati transavanguardista di Nancy (di)Spero al requiem della prezzemolina Sophie Calle (a proposito, lode e gloria al Basilico nazionale, scattante defensor patriae), culminando nel sacello dei caduti apparato nell’“abside”. Per tacere dei morti viventi, vedi il leggendario Bruce Nauman indegnamente rappresentato da due squallidi, turpi lavabi. A risollevare temporaneamente le sinapsi, la deliziosa operina edificante di Joshua Mosley.

Tutto il resto (o quasi) è noia, cifra di una mostra prevedibilmente made in Usa: marchio automaticamente dedotto dal passaporto del curatore, confermato dalle presenze e, abbassandosi ai luoghi comuni, suggerito da una pacchiana tendenza all’accumulo. Un cacofonico inno patriottico con un irritante sottofondo: l’ossessione tutta star & stripes per il politically correct. Tale da far sospettare, maliziosamente, dietro l’interesse per l’Africa una pelosa campagna di tutela e valorizzazione (anche sul mercato) delle minoranze, a costo di promuovere il pedestre naif di Chéri Samba e i banali wall drawings di Odili Donald Odita, arditamente paragonato a Dorazio. In ciò la presunzione d’un indirizzo che incespica nel bisogno di ribadire che l’America è la più grande democrazia del mondo e che, pertanto, accetta tutte le contestazioni, sul passato -Kara Walker – e sul presente: lo sciatto Raymond Pettibon e il “pulcino” Emily Prince, la quale non riesce a partorire niente di più originale del planisfero composto con le faccine dei soldati Ryan ambosessi periti nelle guerre di Bush. Peccato che l’unica ad avere il diritto di criticare l’America sia l’America. Di qui il lavacro collettivo della coscienza nazionale, di qui l’apoteotico anabattesimo yankee nelle acque d’una laguna dove ci si loda e ci s’imbroda. Ovviamente, dopo il cilicio, il calvario e l’espiazione. Requiescat in pace, Storr.

anita pepe

mostra visitata il 7 e l’8 giugno 2007

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