Grandi uomini in primo piano

24 marzo 2009

I volti dei personaggi entrati nella storia nei dipinti di Francesca Leone al Castel dell’Ovo

Monumentale il formato, monumentali i soggetti. Le grandi dimensioni dei dipinti di Francesca Leone s’impongono nella Sala delle Terrazze a Castel dell’Ovo in un’esposizione che, dopo Napoli, farà tappa al Museum of Modern Art di Mosca, per concludersi in autunno presso la galleria capitolina di Valentina Moncada.
Macroscopici volti che, per la ripresa ravvicinata e il trattamento pittorico, fanno pensare al cinese Yan Pei Ming, e tormentate figure che, per pennellate e distorsioni (nonché per l’impaginazione a trittico) rendono automatico il ricordo di Bacon. Ma sono anche altri i grandi che la Leone non teme di affrontare, come i personaggi immortalati in questa galleria di ritratti in “Primo piano” (titolo della personale): Nelson Mandela, Gandhi, Malcolm X, Martin Luther King, il Dalai Lama. E, tra questi,  suo padre Sergio, autore di pietre miliari del cinema mondiale, dagli “spaghetti western” al capolavoro “C’era una volta in America”. Forse il “monumento” più ingombrante di tutti, eppure l’artista, piuttosto che soccombere al complesso d’inferiorità o di emulazione che spesso colpisce tanti “figli di”, fa tesoro con naturalezza di un albero genealogico fitto di altri ragguardevoli rami (madre danzatrice, nonno regista, nonna attrice) e,  col bagaglio di questa quasi “genetica” predisposizione alla creatività, prosegue sulla strada che proprio il papà aveva incoraggiato, portandola giovanissima sul set e sostenendola negli studi di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Studi successivamente perfezionati, declinati in diverse esperienze (tra cui la decorazione della porcellana) e, infine, divenuti campo esclusivo di ricerca, anche in sintonia con quella “linea romana” che, pure negli anni più bui dell’abbandono imposto dalle tendenze, rimase baluardo della pittura: scelta previdente, alla luce della rinascita in atto da qualche anno.
E diventa inevitabile, quasi scontato, un altro legame – né biografico né professionale – col mondo del cinema, individuato dal critico Lorenzo Canova nei tagli e nelle inquadrature scelti per queste effigi in formato gigante. Uno stile mutevole per vibrazioni e segni, dalla pennellata sfaccettata dei visi a quella più definita o rapida delle figure intere. Parco l’uso del colore, sintetizzato in una monocromia con dominante bruno-grigia episodicamente ravvivata dal fuoco del rosso, evidente soprattutto nella produzione di un paio di anni fa, in cui la maggior compiutezza dell’impianto scenico e delle volumetrie veniva subitaneamente infranta dalla veemenza gestuale della pennellata. Notevole il salto stilistico compiuto dall’artista rispetto a queste prove: si direbbe che ora, in assenza totale di sfondo, è il volto stesso a farsi architettura, ad accamparsi nello sguardo dello spettatore in virtù di un espressionismo severo e solenne.
Buona la tecnica e sapienti i tecnicismi, che – come nota Claudio Strinati (il Soprintendente al Polo museale romano che lo scorso dicembre l’ha “ospitata” nelle sale di Palazzo Venezia) sono frutto di una maturazione orientata alla ricerca di una chiave sempre più personale ma non immemore della tradizione classica, approdata in un “doppio registro” che nega la visione al diminuire della distanza, restituendola di contro al suo aumentare, secondo i meccanismi dell’impressionismo e del pointillisme, messi qui sotto una lente d’ingrandimento che ne acuisce l’impatto emotivo.
Risultato, un quadro che – scrive Strinati – è, allo stesso tempo, “nitido e sfuggente, solido e aereo, inquietante e maestoso”.

(Roma, 24 marzo 2009)

heiderman.ervin