L’arte fa lo sgambetto al reale. È il minimo, per Ceal Floyer

30 novembre 2008

Una miniantologica al Madre

Ceal Floyer agisce al confine tra arte e vita, anzi cerca di rompere continuamente la barriera tra le due». Così, nella preview stampa di ieri, il curatore Mario Codognato introduceva la mostra dell’artista d’origine pakistana al Madre, dov’è già in corso la retrospettiva dedicata a Robert Rauschenberg. E l’argine, durante la mattinata, aveva decisamente ceduto, con le dichiarazioni del direttore Cicelyn circa il prosieguo dell’affaire Madrenalina e il balletto di voci sull’opening, in forse fino a quando, durante l’intervento dell’assessore Velardi, non è arrivato il colpo di scena: la revoca del provvedimento giudiziario che, ad evitare il ripetersi delle ”serate danzanti”, imponeva la chiusura del museo dalle 20 alle 6 del mattino. Valida solo per il week end, ma sufficiente a scongiurare la temuta «figuraccia» con gli ospiti internazionali, attesi per la personale della schiva quarantenne, cresciuta nella covata degli Young British Artists, ma lontana tanto dalla vena macabra di un Damien Hirst quanto dalla provocazione erotica di una Tracey Emin. Quella della Floyer è infatti una poetica minimale, nient’affatto «drammatica», anzi leggera e ironica. Che innanzitutto fa leva sulla semantica, con giochi di parole e doppi sensi. Purtroppo non sempre chiari per chi non padroneggi l’inglese, quali “Drill”: un trapano – “drill” – infilato – “to drill” – nella presa di corrente, che rende significativa una banale azione quotidiana. Piccoli gesti che destabilizzano l’“Order” precostituito, vedi lo schedario con le linguette alfabetiche diposte a formare una scriminatura centrale. Anfibologie che mirano a correggere la percezione iniziale – un plasma screen tutto bianco (“blind”, “cieco”), sul quale a poco a poco prende forma una tenda (“blind” anch’essa) -, oppure opere che vogliono ritardare questa percezione: la fotocopia della tipica tana del topolino dei cartoon poggiata distrattamente a terra (un nascondiglio nascosto…), la linea tratteggiata lungo le pareti nude, da ritagliare con le forbici che appaiono nella diapositiva inserita nel visore al centro della stanza. Frequente pure l’object trouvée di dadaista memoria, manipolato per sintetizzare lo stereotipo paesaggistico nel “Tableau” da ping pong diviso in due: una metà verde, in orizzontale: il prato; una blu, in verticale: il cielo. Un lavoro, quello della Floyer, che si misura anche sulla distanza, segnata nello spazio dall’elastico nero teso lungo la parete (con un fallace giochetto di centimetri), e nel tempo dall’intervallo tra le due “puntate” di “Stop motion”, dittico di foto con la “storia” di una goccia di latte che cade a formare «in modo scultoreo» una candida corona. Oppure la coppia di altoparlanti nell’atrio del museo che, ad intervalli regolari e disomogenei, amplificano stereofonicamente l’uno un applauso, l’altro un’acclamazione (benaugurante?). Ed è un duetto anche la parte conclusiva dell’esposizione, nella Project Room oltre il cortile interno: due fiammelle che sembrano ballare al ritmo d’un sottofondo pop. Sempre che non arrivi il provvedimento del magistrato…

(Roma, 30 novembre 2008)

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