Collins e Rondinone da Raucci/Santamaria
Tim Rollins dimostra come il ruolo sociale del mestiere d’artista possa travalicare, e di molto, i cosiddetti “laboratori didattici” in cui è sufficiente tenere i ragazzini impegnati ad impiastricciarsi le mani. Perché lui, in questo progetto dei k. o. s. (cioè “kids of survival”), ha messo in gioco tutto se stesso, “regalando” il proprio nome ai ragazzi di strada, e guidandoli pazientemente in un lavoro culturale in senso alto. Sfidando così il luogo comune che vorrebbe le persone “semplici” incapaci di capire e di sentire il Bello, ovunque esso si manifesti. Per Rollins infatti tutto, dalla letteratura alla musica, fa testo. E, come tale, può essere analizzato e riscritto visivamente. Uno sviluppo di competenze trasversali che, dopo Collodi, Dante, Orwell, Twain, Kafka, Schubert e Haydn (e attualmente, americano imbevuto di cultura europea, sta lavorando su Darwin), ha puntato su una partitura di nicchia come le “Metamorphosen” di Richard Strauss, tra le ultime del compositore tedesco, scritta alla fine della Seconda Guerra Mondiale. È per questo, allora, che i fogli pentagrammati incollati sulle tre tele nello spazio A della Galleria Raucci/Santamaria s’incupiscono progressivamente nel nebuloso addensarsi dell’inchiostro di china, che dietro una brumosa suggestione atmosferica lascia perfino scorgere qualche schizzo alla Pollock. È una lettura dell’opera legata innanzitutto al contesto storico – il tempestoso crescendo d’archi che Rollins e i k.o.s. hanno “tradotto” fino al nero totale evocava l’incalzare dei bombardamenti sull’Hoftheater di Monaco, che il musicista definì “La più grande catastrofe della mia vita” – , ma col sapore di una rivendicazione “umana”, poiché la “Metamorphosen” riguarda gli stessi k.o.s., reietti degli slums cui l’arte ha offerto l’opportunità di trasformarsi.
È invece, apparentemente, ingannevolmente semplice il lavoro di Ugo Rondinone, interpretabile in base ai concetti di mimesis e menzogna percettiva (al punto che il camouflage visivo condiziona il senso del tatto) acquattati dietro l’iper-realtà degli oggetti disseminati sotto le algide luci della galleria B, ritornata ampia dopo i recenti lavori di riallestimento. Le “cose” sono limoni d’un bel giallo squillante, pini stecchiti, pezzi di polistirolo e una porta scassata e scrostata, ispirata da una “gemella” adocchiata a Napoli lo scorso luglio su una catasta di rifiuti. Sembrerebbero ready made, ma non lo sono. Sembrerebbero object trouvée, ma non lo sono. Sono sculture, di bronzo e con un’anima di piombo, metaforico richiamo al peso della vita, accuratamente ridipinte in modo da “sembrar vere”. Un’ottica tragica e, insieme, ironica. Contestazione dell’affidabilità dei sensi, trionfo del doppio, dell’ambiguità (in passato insinuatasi anche nella sessualità, attraverso una memorabile serie di autoscatti), di una “facilità” provocatoria che dissacra l’oggetto, esponendolo casualmente nello spazio (altra finzione: quanta meticolosità, invece, nella scelta delle luci e nella disposizione) e affidandone ad altri l’esecuzione materiale. Un gioco concettuale contraddittorio, che destruttura e ristruttura, ed attira con l’evidenza di ciò che non è, svelandosi alla fine un’eccitante delusione, che manda in tilt la comunicazione ammettendo tutto e il contrario di tutto. Un calco a cera persa di un mondo pesante e inamovibile, alterato e alternativo, che sbatte la porta in faccia allo spettatore sedotto e abbandonato.
(Roma, 8 novembre 2008)