Coi piedi per terra. A frugare tra le fessure del selciato e i granuli d’asfalto. Coi piedi per terra, e con le mani in pasta. Ad avvolgere riti e abitudini arcaici e nudi. Poi con gli occhi bassi, sfiorando l’allestimento radente il pavimento, vagando in un incontro casuale tra due rabdomanti del quotidiano.
Alessandra Spranzi sfonda le prospettive monotone di tinelli vintage con inserzioni “morandiane”. Una poetica intima, che riproduce mani “all’opre femminili intente”, o mescola rassicuranti ritagli di vecchie riviste a trafiletti alogici e quasi paradossali, ricavando negli interni domestici oblò aguzzi, come schegge di specchi riflettenti realtà al di qua. Una dimensione improvvisa, malinconica e un po’ inquietante, appena un passo indietro o un po’ più lontana, nella quale sugli scorci del come una volta si stende il velo sottile dell’assurdo metafisico.
Tra alto e basso, Richard Wentworth trova la sua originalità in una cifra non legata al “mestiere” ufficiale. Di maniera concettuale è infatti la scultura, che gioca ironicamente con parole, equilibri e punti di vista: la sedia di Kosuthiana memoria levita nel suo involucro (Husk), così come sta “appeso nell’aria” il bastone da passeggio, edizione limitata della grande installazione vista alla Biennale veneziana di Birnbaum. Prensile è, invece, l’occhio flâneur dietro l’obiettivo, pronto a cogliere gustosi accidenti. Un bicchiere di plastica infilzato nella cancellata, uno pneumatico che sbuca dalla finestra: un’aneddotica visiva un po’ estemporanea, ma sapiente in colori e composizione. Ultima sorpresa, uno specchio dietro la porta. Entrando, non si ci si faceva caso.
Alessandra Spranzi, Richard Wentworth_ Milano, Nicoletta Rusconi