Anri Sala

24 gennaio 2005

Napoli, Galleria Alfonso Artiaco

Sensi calamitati. Fino all’esasperazione. Dal rombo del motore in crescendo, alla luce abbacinante.
Un dittico di pellicole che sollecita vista e udito, ma separatamente…

Ancora gioventù nella galleria di Alfonso Artiaco. Dopo l’apertura-evento affidata a Perino & Vele, esattamente a un anno di distanza dalla proposta del duo Bianco Valente, si torna alla videoarte con una stella internazionale del settore: Anri Sala (Tirana, 1974), talento albanese di stanza a Parigi, trenta primavere alle spalle. Ambasciatore culturale di una non-nazione? Forse. Ma Anri Sala è a pieno titolo -e mostra di sentirsi- innanzitutto un artista e, in quest’ottica, la nascita a Tirana e i regolari ritorni a casa appaiono elementi accessori. Onore al merito, tutt’al più, per aver saputo inoculare in patria i germi di una nuova creatività, emancipandosi da una situazione che -nello sgretolarsi dell’ancien régime e nel cozzo contro il capitalismo- si teneva abbarbicata alla solenne iconografia del socialismo reale. In ogni caso, chi pensava che a Palazzo Partanna, dopo i clamori dello “scomodo” Kubark, l’atmosfera si fosse tranquillizzata ha dovuto fare i conti con gli stimoli altrettanto forti di un dittico di pellicole che, separatamente, sollecitano i sensi fino al parossismo. Non tutti, però, e non tutti insieme.

Incalzante, inesorabile è il crescendo che straripa nell’udito in un Untitled brillante di molteplici verdi, una progressione sonora che accompagna l’intrufolarsi, sempre più invadente e selvaggio, di una sorta di rostro natante nel cedevole flettersi del fogliame. Morbido l’inizio, cullato dal liquido fruscio palustre: incipit rassicurante ma effimero, giacché il rombo del motore sopraggiunge presto a frangere l’indolente sciacquio della gora, prima spezzato dallo schiocco dei rami e, poi, definitivamente sovrastato dalla cieca e assordante prepotenza della macchina. Piede a tavoletta sul girato, per questa violazione di domicilio naturale che irrompe rintronando nell’orecchio.

Con uso accorto del paradosso, il filmaker brandisce il seducente potere della fastidiosa esasperazione anche in Three minutes, lavoro accurato e di grande eleganza, con gradevole effetto da cinema d’antan. Timpani imbottiti di rassicurante silenzio, ad essere sedotta stavolta è la vista, ripetutamente abbacinata dalla luce che, nell’incontro con un disco di bronzo, saltella, singhiozza, rimbalza con argentea vivacità, irradiando onde concentriche sul gong della pupilla. Difficile, impossibile distogliere lo sguardo, come se quel cadenzato batti e ribatti sulla superficie di metallo celasse un potere ipnotico. Rigore e semplicità che inchiodano. Basta poco. Pare poco?

anita pepe

mostra visitata il 18 dicembre 2004

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