Argenti a Pompei

20 settembre 2006

Napoli, Museo Archeologico Nazionale

L’Archeologico tira fuori il servizio buono per raccontare l’età d’oro di Pompei e dintorni. Il risultato? Un affresco della Roma magnona servito su un piatto d’argento. Decisamente squisito…

Allestimento elegante, didascalie esaurienti e, soprattutto, lo splendore dei protagonisti: gli argenti di Pompei. Tanto basta a far girare il contatore di una mostra che, di proroga in proroga, dopo la lunga sosta napoletana arriverà a Torino in versione ampliata. Discreto e raffinato lo sfondo total black che esalta i tesori sepolti nel 79 d. C. dalla furia del Vesuvio. Bottini di qualche inevitabile predatore, ma soprattutto preziosi frettolosamente raccolti da chi s’illudeva di portarli con sé in una fuga disperata, magari per ricostruirsi una vita da un’altra parte. Una vita che, invece, la lava, i lapilli, le ceneri e il fango spezzarono e imprigionarono per secoli, finché le vanghe e i picconi dei tombaroli e degli archeologi, al giro di boa del Secolo dei Lumi, non riportarono alla luce quelle che erano state le civiltà fiorite ai piedi della montagna infuocata. Non si era che all’inizio e la fine, a tutt’oggi, sembra lontana, visto che, da queste parti, gli scavi non finiscono mai. È il caso di uno dei pezzi forti della rassegna: il corredo da tavola rinvenuto a Moregine nell’ottobre del 2000 durante i lavori per l’ampliamento dell’autostrada Napoli-Salerno, e oggi visibile per la prima volta, insieme alla gerla in vimini in cui era custodito, accuratamente avvolto in panni. Sono questi i “debuttanti” posti a conclusione di un percorso stimolante, che attinge a varie collezioni, dall’Archeologico partenopeo al Louvre (da cui provengono i reperti del tesoro della Villa della Pisanella a Boscoreale). Coppe, cucchiai, tazze, piatti, formine, ma anche aggeggi per la bellezza e l’igiene, come specchi e strigili: suppellettili di duemila anni fa, spesso con un design accattivante e moderno, nonché funzionale.

Nella profusione dei decori, ricorrente il motivo iconografico dello scheletro, memento mori da triclinio, tanto per far andare il boccone di traverso ai convitati col ricordo della caducità dell’esistenza, quanto per atteggiarsi (forse pure un po’ apotropaicamente…) a filosofi, come esemplifica l’esilarante episodio della Cena di Trimalchione del Satyricon di Petronio, impareggiabile ritratto di un’allegra brigata di parvenus e parassiti. Una Roma cafona che, però, produceva e ostentava status symbol di grande bellezza, come queste stoviglie “ricamate” in barba a tutte le leggi suntuarie o ai tentativi di restaurare gli austeri costumi dei padri. Mandato a farsi benedire il frugale vitto degli antenati, i ricconi divoravano prelibatezze che oggi giudicheremmo ripugnanti (come il garum, salsetta di interiora di pesce fermentate, o la vulva di scrofa)… ma in quali delikatessen di metallo! Un’ultima curiosità: sapete con quale termine s’indicava il servizio da tavola? “Ministerium”. Anche all’epoca, sinonimo di magna-magna…

anita pepe

mostra visitata il 16 settembre 2006

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