Capodimonte. L’ultima opera di Caravaggio da ieri è “in prestito” alla Pinacoteca

21 giugno 2005

E’ il più documentato dei dipinti di Caravaggio, forse l’ultimo. Eppure per anni non venne riconosciuto, tanto da essere attribuito prima al solito seguace non meglio identificato, poi addirittura a Mattia Preti, finché nel 1980 Giorgio Fulco e Vincenzo Pacelli, frugando tra le carte degli archivi, vi impressero in maniera inoppugnabile il sigillo del Maestro, con tanto di data: 1610. Da allora, la “Sant’Orsola confitta dal tiranno” è una star delle rassegne dedicate al lombardo e, senza dubbio, la principale calamità di quanti visitano la sede della Banca Intesa in via Toledo, quel Palazzo Zevallos nel quale la tela, dopo vicissutidini ereditarie snodatesi tra Genova, Napoli ed Eboli, e forse per influenza di un kharma misterioso (l’edificio appartenne anche ai Colonna, protettori napoletani del Merisi), approdò nel 1972, grazie all’interessamento di Raffaele Mattioli. Un “colpaccio” involontariamente messo a segno dall’allora Banca Commerciale (relativamente) a buon mercato e a scopo d’arredamento, entrato poi nelle collezioni di Banca Intesa con un pedigree trionfale, anche se… non è stato amore a prima vista perché « il quadro non “cantava”», confessa Fatima Terzo, responsabile per i Beni Culturali dell’istituto di credito. Si decise perciò di affidare alle cure dell’Istituto Centrale di Restauro questo «malato gravissimo», uscito nel 2004 dalle mani dei coniugi Giantomassi risarcito nella tavolozza e nelle dimensioni originarie, per giunta con una sorpresa: una mano, fino ad allora sconosciuta, che irrompe sulla scena nel vano tentativo di fermare il martirio della vergine. La scoperta era troppo importante per non organizzare una tournée del capolavoro restituito: tre tappe (Roma, Milano e Vicenza), prima di approdare alla mostra dei record su “L’ultimo tempo” di Caravaggio” tenutasi a Capodimonte e alla National Gallery di Londra. Adesso però, rientrato nella città dove fu eseguito quattro secoli fa, il quadro non può ancora tornare a casa, visto che gli imponenti e necessari lavori di ritrutturazione di palazzo Zevallos prevedono tempi piuttosto lunghi. Che fare, allora? Invece di seppellirlo in qualche caveau, si è pensato di esporre il capolavoro in un luogo ad hoc: così da ieri la “Sant’Orsola”, con tanto di esauriente pannello didattico (esempio che molti direttori di musei dovrebbero seguire), è diventata l’ospite d’onore di una stanza della pinacoteca di Capodimonte, con la buona compagnia di Sellitto, Vitale e Battistello, che del Merisi furono contemporanei, imitatori e (senza dubbio nel caso di Caracciolo) pure amici. Si tratta, naturalmente, di una collocazione temporanea, poiché «le opere d’arte, a meno che non intervengano ragioni di tutela, non devono essere strappate dai posti per i quali furono concepite, soprattutto in una città, come Napoli, in cui le testimonianze del passato sono fortemente innervate nel territorio», sentenzia il soprintendente Nicola Spinosa, d’accordo con il responsabile della direzione Sud di Banca Intesa Vincenzo D’Alessio. Uno “svarione” conspevole e perciò perdonabile, quello del Soprintendente Speciale per il Polo Museale (la tela in realtà venne commissionata dal principe genovese Marcantonio Doria), funzionale alla contestualizzazione del dipinto in un’appassionata digressione caravaggesca. Quadro dall’iconografia al solito eversiva, con pochi attori – fra cui il pittore stesso – ad interpretare un martirio che, più che un dramma storico-religioso, è in realtà una tragedia umana, specchio della fragilità psicologica di un fuggiasco braccato dalla giustizia papalina e dagli sgherri di un misterioso cavaliere maltese, che aveva conosciuto nell’autunno precedente la faccia cattiva di Napoli, quella che, ora come allora, sa infierire con espressioni di inaudita ferocia. Quanto è diversa, allora, questa tela in cui c’è poca differenza tra vittima e carnefice, in cui domina l’ineluttabilità della morte, dall’atletico Cristo di quella “Flagellazione” dettata tre anni prima da una concezione ancora “eroica” e rinascimentale. Nelle sale di Capodimonte, basta girare l’angolo per vedere la differenza segnata da questa manciata di mesi: un attimo, una vita intera.

pubblicato sul Roma, 21 giugno 2005

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