Selfie di qua, selfie di là. Tutti sovraesposti: piedi in riva al mare, nasi deformati dal grandangolo, cannucce del mojito fra le labbra. Ma che succede quando a fotografarti è qualcun altro? Quando l’altro, che è un fotografo, riesce ad inchiodarti con una semplice domanda: vuoi posare per me?
A dirla tutta, la proposta è una specie di selfie anche per lui, l’altro, visto che il “set” è la sua guest house – home gallery. Luogo della quotidianità, spazio della professione.
È davvero un bel rompicapo il progetto di Massimo Pastore. Che evoca, instintivamente, un aggettivo: intimo. Per gli scenari, per il formato di stampa, per il bianco e nero, per il gioco psicologico di rimandi.
L’artista ha chiesto ai suoi soggetti di farsi ritrarre prevalentemente in una fase di sospensione dalla vita, la solita vita. Molti sono infatti in vacanza, e nella valigia hanno forse pigiato aspettative, sogni, nuove possibilità. Oppure hanno trascinato fino alla meta una zavorra, e adesso sono pronti a scaricarla. Chi può dirlo? E soprattutto chi può sapere fino in fondo cosa accade nell’animo di chi arriva in una città che non è mai neutrale e che, nel bene e nel male, può farti ubriacare ed illudere?
La casa, poi, non è un albergo. Nel senso che quel Primo Piano rimane una casa, dove si viene accolti, come ospite o amico, fra opere d’arte, libri e parole. Per qualche ora o qualche giorno, l’abitazione è anche di chi la vive di passaggio. Di chi magari scopre dopo quanto quelle stanze e quei balconcini siano stati importanti, scegliendo di ritornarci per festeggiare un evento atteso. Pezzi di vita che sono scappati insieme al fiato su per le scale, si sono incastrati tra i lastroni del cortile.
Quanto l’ambiente esterno influisce sulla nostra dimensione interiore? Quanto il nostro spazio interno assorbe quello esterno?
La richiesta di Pastore ai suoi estemporanei modelli si insinua dunque tra coordinate fluide: nel momento di accoglienza e di “vacatio”, occasione di forza e di fragilità, e nei varchi del margine dentro/fuori. Nell’aprire consapevolmente il teatro delle sue e delle loro giornate, formula in maniera apparentemente distaccata facoltà di scelta: mettetevi dove, come volete. Sul letto, sui gradini della scala interna, sul pavimento, sul divano. A chi accetta viene demandato il titolo dell’immagine, che parlerà dunque la sua lingua. Uno, due scatti al massimo. Come se, una volta stretto il patto, i contraenti avessero premura di portarlo a termine. Perché c’è un treno che aspetta; perché si è felici di farlo; perché non ci siano ripensamenti; per stemperare il nodo profondo di questa idea, ovvero la consapevolezza e la corresponsabilità di un lavoro artistico.
Premessa necessaria è l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, visto che, a differenza di quanto accade con il digitale, la tecnica analogica non consente di verificare immediatamente l’esito della sessione. Il fotografo rispetterà le indicazioni del soggetto, che gli affida un pezzo della “proprietà intellettuale” dell’opera.
Realizzato in un arco cronologico piuttosto ampio, il ciclo trova unità come racconto – e non puro catalogo – di reazioni. Come ci comportiamo quando veniamo sedotti dalla libertà (vigilata) di essere protagonisti e co-autori? I criteri concordati dovrebbero rassicurarci, ma… sappiamo ancora scegliere non tanto il modo in cui vogliamo essere rappresentati, quanto quello che meglio ci rappresenta come individui?
C’è chi abbatte le barriere mettendosi a nudo; chi coglie la palla al balzo e si trasforma in performer; chi scherza; chi fissa o distoglie lo sguardo. Esibizionismo, pudore, estro, provocazione, fuga, soggezione. Come si sta in casa d’altri, sapendo che quella casa rappresenta, metaforicamente, il suo mestiere d’artista? Come ci si colloca il proprio corpo? Siamo più o meno sinceri, con un obiettivo puntato addosso?
Il pubblico entra lentamente in questo sfaccettato gioco antropocentrico, provando per prima cosa a indovinare le relazioni tra quei volti, quei piedi, quegli occhi, e le loro identità. Fratelli, amanti, turisti, amici. Ma As you like it sembra soprattutto narrazione di solitudini, anche quando nell’inquadratura compare più di una persona. Come se il transitorio, una volta convertito su pellicola, isolasse in una bolla quel frammento che esige una trama, una storia reale o immaginaria. Fotografo, modelli, spettatori da turisti diventano viaggiatori, ciascuno avviato sul cammino personale e perlopiù segreto di chi ha cambiato aria, soffitto e lenzuola.
“Coelum non animum mutant qui trans mare currunt”, asseriva Orazio. Ne siamo sicuri?
Massimo Pastore_ As you like it_ a cura di Denis Curti e Antonio Maiorino Marrazzo_ Napoli, Galleria PrimoPiano
(16 maggio – 10 settembre 2014; dal 1 agosto al 10 settembre solo su appuntamento)