A mostre così un tempo si era abituati. Ma sono passati troppi anni da quando, tra Castel Sant’Elmo e Capodimonte, venivano inanellate rassegne su Battistello Caracciolo, Jusepe de Ribera, Mattia Preti, Luca Giordano, Giovanni Lanfranco, per chiudere in bellezza con l’ultimo tempo di Caravaggio. A Napoli “si fa” troppo Seicento: un’accusa da rivedere. In primis perché il verbo sarebbe ormai da coniugare al passato; in seconda battuta, perché il Seicento non è mai troppo, considerati le attribuzioni, nuove o rivedute e corrette, e i ritrovamenti ancora in corso, insieme alla necessità di riportare periodicamente in superficie i tesori sommersi nei depositi museali e nelle collezioni private.
A riproporre una zoomata sul “siglo de oro” è ora la raccolta esposizione su Tanzio da Varallo, personalità catapultata dalle morbide nebbie piemontesi tra i gagliardi chiaroscuri di un Maestro che maestro non fu. Parliamo naturalmente di Michelangelo Merisi, citato – per ovvi motivi – sul manifesto, sebbene non incontri vis a vis Antonio d’Enrico (questo infatti il vero nome dell’artista di Alagna). La Sant’Orsola confitta dal tiranno, ultimo quadro documentato di Caravaggio, resta infatti nella sua abituale collocazione, al piano superiore di Palazzo Zevallos, sicché a voler essere pedanti si direbbe che Tanzio incontra piuttosto i caravaggeschi della prima ora.
Ma cosa ci faceva un nordico sulle assolate rive del Golfo? Da Roma, Tanzio arriva nella capitale del Viceregno intorno al 1603-1605. Apre bottega, e metterebbe pure radici, se il matrimonio programmato non sfumasse. Ci resta comunque una decina d’anni, lavorando anche per la committenza abruzzese (testimoniata dalla Circoncisione di Fara San Martino), poi torna in Valsesia, coadiuvando il fratello Giovanni, scultore, nell’impresa decorativa del Sacro Monte di Varallo. Qui, disseminate tra varie cappelle, Tanzio affresca Storie della Passione, “visibili” anche a Napoli grazie ad un video di approfondimento, arricchito dalle parole di Giovanni Testori, amante e fautore della riscoperta dell’artista, e di Mina Gregori. Un filmato utile anche perché suggerisce come, nel cantiere valsesiano, Antonio sembri “regredire” verso modi manieristi e tardomanieristi. Come se, lontano dai fermenti, dal confronto e dalla competizione di una grande città europea, l’artista segni il passo stilisticamente, rifugiandosi in un porto più sicuro e apprezzato dalla committenza controriformata (né sono da trascurare il dato tecnico, l’ubicazione e il fine didascalico di tali pitture).
La parte “in presenza” propone ventinove opere, comprese alcune nuove attribuzioni (due Adorazioni dei pastori, una in collezione privata e un’altra presso il Museo di Lille) e tele presentate per la prima volta in Italia, come il San Bruno in preghiera davanti al Crocifisso di Carlo Sellitto. Organizzato parzialmente per piccoli nuclei iconografici, il progetto ha il pregio di sottoporre il “protagonista” a confronti non sempre generosi, evidenziandone talvolta i limiti, o meglio la fatica e la discontinuità di un linguaggio in difficile equilibrio tra le fascinazioni nordeuropee e i dettami del naturalismo. Al centro del salone d’ingresso, la battaglia tra quadri di grandi dimensioni avviene ad armi pari e Tanzio ne esce a testa alta, con il bellissimo San Carlo Borromeo comunica i malati di peste della Parrocchiale di Domodossola, col cardinale, emaciato e più diafano del solito, ad illuminare “elettricamente” una composizione dalla tavolozza smagliante. La massiccia monumentalità di Filippo Vitale e il cupo splendore di Battistello Caracciolo (quel rosso…) sono qui buoni compagni di strada, come probabilmente lo furono nella passata realtà.
Al di là della retorica (ma mai scontata) precisazione su quanto fertili fossero i rapporti tra Nord e Sud, la mostra, sulla scorta di quanto affermato nell’incipit, involontariamente tira fuori dal mazzo la carta di un artista bisognoso di un richiamo (la sua prima e ultima “personale” data infatti al 1977): Carlo Sellitto.
Tanzio da Varallo incontra Caravaggio/ Pittura a Napoli nel primo Seicento_ a cura di Maria Cristina Terzaghi_ Napoli, Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano
(24 ottobre 2014 – 11 gennaio 2015)