Dieci per due. Venti sono le candeline spente lo scorso anno dalla Galleria Umberto Di Marino; e dieci sono gli anni nel corso dei quali la coppia Vedovamazzei ha prodotto le opere scelte come epilogo, nella galleria di Piazza dei Martiri, di “Ten more ten”, ciclo di esposizioni nate per festeggiare il giro di boa dei quattro lustri. Con gli usuali meccanismi spiazzanti ed ironici, Stella Scala e Simeone Crispino, che nel 1991 hanno avviato il sodalizio battezzato con un nome ready made, esortano ad informarsi e a ricordare: una mostra che mette il dito in piaghe che si preferirebbe liquidare in poche battute, carichi pendenti sulla coscienza di conniventi o complici di alcune fra le pagine più nere della storia e della politica. Ad esempio la logica doppiopesista nel valutare le efferatezze del socialismo reale: “Una risata e venti milioni di morti”, parafrasando il titolo del saggio di Martin Amis, riduce a brandelli l’indulgenza con la quale molti intellettuali guardarono agli orrori del comunismo, prima di rinnegarli. Le faccione ghignanti e un po’ fumettose di Fidel, Pol Pot e altri dittatori sono state strappate e ricomposte in un puzzle che sembra evocare tanto gli eccidi da loro commessi quanto la bella utopia andata in frantumi. Documenti involontari promossi ad opere d’arte: “Next to normal” è lo scarabocchio di un piccolo deportato che, ingigantito in forma di neon, fa da grafico convulso e poi collassato di un mondo terminale, un filo spezzato tra i tanti che la Storia aggroviglia. La scrittura come trasmissione di senso rammenta atrocità invece insensate: sui guanti di “Nema problema” parole di odio e di morte, quelle dei carnefici di Srebrenica che nel 1995, sotto gli occhi distratti dei Caschi Blu olandesi, massacrarono migliaia di bosniaci musulmani. Quasi diecimila i cadaveri lasciati sul terreno da Mladic e Karadzic; e la condanna per genocidio arriva troppo tardi, quando i guanti – indossati per fare il lavoro o per non sporcarsi le mani – sono stati ormai sfilati. In “UN” – “United Nothing” (e non “Nations”) l’alfabeto testimonia di contro la disperazione dei vinti, aggrappati al linguaggio come unico e ultimo indizio di umanità di fronte al colpevole silenzio dell’Onu. Morto più morto meno, la storia è sempre lo stesso mattatoio (e la contabilità a più cifre sembra perfino più banale); ma talvolta il macellaio è irresistibilmente seducente: quei due quadri, tanto innocui da ben figurare in un tinello, rappresentano l’uno la casa di Neauphle-le-Château, meta di pellegrinaggi di intellettuali affascinati dall’ayatollah Khomeyni; l’altro il “nido” di Abottabad, rifugio del ricercato numero uno Bin Laden, simbolo perciò del male assoluto e condannato al simbolico spettacolo della distruzione. Piazzato davanti agli oli su tela, quasi privilegiato punto di osservazione, il sontuoso sofà che dietro rivela un monito graffiante “Anything goes”: va tutto bene, ma se ci mettiamo troppo comodi qualcosa sfugge. Magari ci assopiamo. Poi si sa dove porta il sonno della ragione.
(Articolo pubblicato sul Roma, 19 maggio 2016)