Se la Bellezza è solo un’eco

16 febbraio 2018

Giulio Paolini_ L’Ermafrodito_ 2017

“Ma che cos’è, cosa sarà mai quell’immagine miracolosa capace di manifestarsi pur rimanendo segreta e di abbagliare lo sguardo innocente e indifeso dell’osservatore? Del resto, noi che guardiamo altro non vorremmo vedere se non quella luce, a rischio di perdere la vista. Che altro c’è da scoprire, ammirare che non sia al di là della frontiera dell’Arte? Tutto ciò che tutti i giorni vediamo, leggiamo o ascoltiamo è una barriera sorda e opaca che non lascia trasparire il “non detto”, ovvero la parola dell’Arte. Parola che siamo noi a formulare senza però riuscire a pronunciarla. Parola impronunciabile perché non ci spetta, non appartiene alla nostra facoltà di dire; così come non siamo in grado di affermare qualcosa che ci supera e ci trascende senza rimedio”. È così, con questa sorta di afasia “paradisiaca”, che Giulio Paolini accompagnava lo scorso dicembre l’opera ideata per il progetto “Carta Bianca” al Museo di Capodimonte. Due mesi dopo quell’inaugurazione, l’artista torna a Napoli – opening stasera alle 19 – per una personale da Alfonso Artiaco: la quarta, per l’esattezza. Sei nuovi lavori, accompagnati da una serie di studi inediti, uno per ciascuna stanza della galleria di Piazzetta Nilo, riuniti sotto il titolo “Rinascita di Venere”. Venus vulgaris o Venus coelestis? Potrebbe essere una delle domande da rivolgere all’artista, colto amante del neoplatonismo. La traccia di una risposta sembra insita nelle iconografie, mutate dalla mitologia greca, dalla letteratura medievale o dall’iconografia cristiana, riproposte in una chiave simbolica consentanea alla raffinata trama estetico-filosofica che Paolini sviluppa fin dagli inizi della sua lunga e fortunata carriera.
Lohengrin, il “cavaliere del cigno”, non solo riporta alla memoria gli allestimenti wagneriani ideati anni fa per il Teatro San Carlo (“Die Walküre” e “Parsifal”), ma è emblematico di una concezione dell’opera che, “per essere autentica, deve dimenticare il suo autore. Apparire priva di generalità, essere senza fissa dimora, appartenere all’ignoto terreno, o meglio alla sconosciuta e impraticabile dimensione del vuoto percorso dagli echi, dalla prospettiva e dalla memoria”. Specchio dell’artista e metafora del suo ruolo, San Sebastiano sostituisce la matita alla freccia, alludendo così al “martirio” imposto ripetutamente dallo sforzo di stabilire un contatto estatico con una dimensione assoluta, quella in cui alberga la Bellezza. Sintesi alchemica perfetta – e perciò irreale- l’Ermafrodito rappresenta la (ambigua ma autosufficiente) distanza dell’arte come categoria avulsa da ogni coinvolgimento con il mondo. Ancora al tema del doppio, ma sfalsato e impreciso, si riallacciano i quattro collage per “Narciso” (2016-17), dove il mito narrato da Ovidio, per fare un’altra citazione “intertestuale”, fa pensare alle celebri tele “voltate” contro la parete, che diventano così soggetto geminato nello sguardo dello spettatore, altro elemento cardine del discorso di Paolini.
Filo conduttore della mostra, la tensione spirituale verso la Bellezza appare protesa verso un’Idea che è possibile cogliere solo di riflesso, in pura trasparenza (come nell’opera che dà il titolo all’esposizione). Ciascuna delle sei proposte “incarnerebbe” dunque questo desiderio, purché il verbo “incarnare” non risponda ad una lettura univoca: la dimensione della corporeità, infatti, pur curata come paradigma estetico, viene tuttavia aggirata per trascendere il limite dei sensi, facendosi portavoce di un Assoluto cui possono assimilarsi solo le geometrie – rettangoli, diagonali – , come principio divino ordinatore. “Ciò che resta è l’eco della bellezza: la Bellezza, qui con l’iniziale maiuscola perché riconoscibile, personificata. – spiega Paolini – Sei ospiti ci accolgono nelle sei stanze dell’esposizione: visite brevi, pur senza trascurare di cogliere l’occasione di avvistare figure tanto illustri quanto incorporee. La loro inerenza ai fatti della vita è ormai remota o addirittura inesistente. Ma è proprio questa – vorrei dire – la ragione della loro eternità”.

(Articolo pubblicato sul Roma, 15 febbraio 2018)

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